"Non possiamo restare indifferenti" | Ospedale Civico, l'ultima frontiera - Live Sicilia

“Non possiamo restare indifferenti” | Ospedale Civico, l’ultima frontiera

Il viaggio nei pronto soccorso palermitani. I racconti del Civico.

PALERMO- “Posso parlare liberamente o ci vuole l’autorizzazione?”. Giovanni Migliore, direttore generale dell’ospedale Civico, abbozza un cenno d’assenso. Ed è allora che Nazarena, coordinatrice infermieristica del pronto soccorso, prende il cuore che batte sotto il camice e lo depone in corsia, tratteggiando i crepacci della separazione che arriva, all’improvviso. “Quando accade qualcosa di irreparabile – dice Nazarena – è un evento tragico per tutti, qualcosa che ti coinvolge, come se facessimo parte di una famiglia. Vedi come cambia la vita delle persone, da un minuto all’altro, non puoi restare indifferente”.

La signora Nazarena ha il viso raddolcito di chi, nella sua trincea, ha scavato un pozzo di umanità. Ed è proprio in questa tenerezza livellata intorno al male che lampeggia la forza di chi si occupa dell’ultima frontiera.

Pronto soccorso dell’ospedale Civico, qui dove prosegue il viaggio nelle aree d’emergenza a Palermo. Un cammino che ha dato voce alle difficoltà che incontrano coloro che assistono gli altri nel divampare di uno strappo, ma che ha, soprattutto, portato alla luce un prezioso giacimento di sensibilità. Se negli ospedali ci si limitasse a compiere il dovere prescritto dal regolamento, poco resterebbe di una macchina sanitaria in affanno. Il sistema regge sull’abnegazione e sul coraggio, sui singoli ardimenti che coprono i buchi collettivi; se non ci fossero, collasserebbe.

Qui, in effetti, le cose sembrano più funzionali da quando è stato inaugurato il nuovo pronto soccorso, con la seconda insegna in arabo che ha provocato qualche mal di pancia in prossimità di un sentire leghista ormai rampicante. Non mancano gli attestati, perfino pubblici, di riconoscenza. Franco Tatò, figura notissima, ha scritto, di recente, sui social: “Ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale Civico di Palermo, dove tutto funziona con operatori bravissimi. Non solo buona sanità, buona umanità”.

Un encomio che campeggia sulla bacheca facebook di Giovanni Migliore che si mostra orgoglioso della struttura rinnovata: “Ringrazio tutti quelli che hanno lavorato e che lavorano sodo. Siamo all’avanguardia e siamo felici di potere offrire prestazioni più efficaci”. La volontà non era mai mancata, adesso, nei locali tirati a lucido, la strada dell’assistenza risulta un po’ meno impervia. C’è uno spazio per la terapia intensiva. Ci sarà la radiologia entro la fine dell’anno. Ci sono ambulatori per i codici verdi, così da razionalizzare i percorsi, una stanza dedicata ai colloqui psichiatrici, con le pareti coperte da colori riposanti, e una sala per ‘isolare’ eventuali pazienti contagiosi. E c’è una attenzione più alta alla sicurezza, con porte vigilate da personale esperto.

Il primario, Massimo Geraci, è in ferie. Al telefono, spiega: “La logistica ci dà una mano, con le risorse e l’organizzazione. Vedremo come andrà in inverno con il picco dell’influenza. Nel pronto soccorso lavorano professionisti specializzati con una grande consapevolezza del proprio ruolo e con ottime competenze. Ci sono i giovani che cedono, ovviamente, qualcosa all’esperienza, compensando in buona volontà, entusiasmo e dedizione”.

Nemmeno qui ha fatto difetto la barbara violenza contro i camici bianchi. Ne sa qualcosa il dottore Vincenzo Pio Trapani, responsabile dell’unità d’emergenza, colpito da un cazzotto qualche tempo fa. A LiveSicilia che lo sentì nelle vicinanze dell’aggressione confessò, affranto: “Nonostante tutto continuerò a fare il mio lavoro, come sempre. Non possiamo difenderci dai pazienti, si tratta di un problema sociale, di un imbarbarimento generale. I medici vengono visti come persone con cui creare conflitti e ciò colpisce in fondo al cuore”. Ora conferma: “La violenza ormai è ovunque, si tratta di un problema sociale, basta osservare quello che accade a scuola. Sono rimasto scosso, certo, però resto qui, non ho nessuna voglia di abbandonare”.

Adelaide, in servizio da ventisette anni, chiosa: “Alle volte ne dicono di tutti i tipi, ma quello che dicono non lo posso riferire qui”. E’ facilmente immaginabile. Una collega sbotta: “Alcuni sono proprio vastasi”.

Eppure, miracolosamente, tutto si tiene. Le fatiche dei singoli – pure i pesi, i malanni, i raffreddori, le separazioni da cui provengono – si sciolgono nell’amalgama di un’opera quotidiana di assistenza. E si può cavare un sorriso, alla fine di una giornata terribile, come la cenere buona di un fuoco che riscalda. Qui, tra i lamenti e gli abbracci dell’ultima frontiera.

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