Quando le ho chiesto se lo aveva visto, mi ha detto che era riuscita ad intrappolarlo con un bicchiere di carta, lo aveva riposto sul davanzale della finestra, e che dopo un attimo di indecisione era volato via. Ci sono rimasto male, nel sapere che non c’era più. Sto parlando di un grillo. Lo avevo notato al mattino, su una parete di casa. Avevo rinunciato ad intervenire secondo il consueto protocollo che mi vede armato di “tappina” o di un giornale ripiegato. Avevo fretta, quella mattina. Un vero peccato. Sarei rimasto volentieri ad osservarlo. Chissà se era lui.
Lo stesso che da qualche tempo mi rimprovera se non chiudo il rubinetto mentre mi lavo i denti, o se indugio più del necessario quando faccio la doccia. Giusto un paio di giorni fa, mentre tutto contento aprivo un pacco di Amazon, mi ha ricordato tutto quello che poteva esserci dietro la celerità di quella consegna o la convenienza del prezzo.
E la sera, era tornato alla carica raccomandandomi di essere generoso, almeno con la mancia, con quel giovane rider che aveva portato la pizza ordinata via web, “come se fossi agli arresti domiciliari” aveva chiosato, velenoso. Ormai è così. Il grillo mi parla sempre e mi ricorda che tutto è peccato. Pure al bar. “Potevi farti dare l’acqua nel bicchiere di vetro”. Ho avuto un timido moto di ribellione solo l’altro giorno, quando mio nipote ha voluto il Kinder Brioss . “Non dargli quella merendina” aveva sentenziato. “Dillo ai suoi, io sono il nonno”.
Il grillo parlante. Il mio grillo parlante. Lo odio.
Nel corso della mia esistenza mi ha iniettato dosi massicce di sensi di colpa, che sono un veleno micidiale. Credo che li abbiamo tutti, e quindi sapete bene di cosa parlo. Poi però si era eclissato, il fetente. Non certo per clemenza. E’ stata la vita, coi suoi percorsi, a togliergli tutti gli assi che aveva nella manica.
Ora è ritornato. Non fa male, ma rompe le palle. Ha lasciato la sfera strettamente individuale. Si è evoluto, ora ha una dimensione pubblica, collettiva, politica. Ha stretto alleanze strategiche.
Con quelli che ormai, basta aprire un giornale o vedere un TG, ti dicono che la fine del mondo è alle porte. I cambiamenti climatici, gli uragani, le bombe d’acqua, le emissioni di CO2, e i ghiacciai che si sciolgono. Tu la mattina ti alzi per andare a pedalare, resistere alle mille avversità della vita stringendo i denti, e loro giù con le pillole di catastrofismo che tanto somigliano a “Fratello, ricordati che devi morire”. Cavolo, e chi ci aveva mai pensato?
E’ un gioco di squadra, il loro. Uno ti lavora ai fianchi, facendoti vivere nella dimensione del peccato, quello nuovo, beninteso, quello della nuova ETICA, colpevolizzando ogni gesto della quotidianità, persino quando mangi la bistecca o bevi la Coca Cola. Agli alleati il compito di prospettarti l’imminente castigo. Che poi non è neppure quello divino, ma quello nel nome delle leggi della scienza. Chissà, forse per marcare la differenza coi testimoni di Geova.
Io, però, li batto, i catastrofisti. Col mio pessimismo. L’altro giorno, dopo l’ennesimo servizio al TG, ho pensato di chiedere un prestito a 60 mesi (giusto per mettermi al sicuro) e spararmelo subito. “Tanto, non dovrò restituirlo – mi sono detto -. Un paio di rate, a essere proprio sfigato”. Poi ho avuto paura che il mondo non finisse più, e ho lasciato perdere. Maledizione, se solo riuscissi a pensare in positivo almeno una volta.
Quanto al grillo, non ho strategie. In fondo ha pure ragione. Però, se lo incoccio di nuovo alla parete, non so come me la penso.