Renna ricorda Don Puglisi, il giudice Livatino e Biagio Conte

Renna ricorda Don Puglisi, il giudice Livatino e Biagio Conte

Una omelia di altissimo profilo: "Riprendetevi la croce di dover decidere della vostra vita, di dover dire il vostro pensiero sulla città, sulla politica, sulle scelte di chi vi ha governato e vi governerà".
LA MESSA DELL'AURORA
di
8 min di lettura

CATANIA. E’ bellissima Catania di mattina presto. Lo è ancora di più nell’incrociare lo sciame di devoti che si sposta verso Piazza Duomo. I più fortunati sono riusciti a trovare posto all’interno della Cattedrale in un’abbraccio alla Santa Patrona che, questa volta, non conosce i limiti della pandemia. Pure il cielo è consolante ed il caffè abbozzato ha il sapore della meraviglia. Ed è un’alba carezzevole fatta di sguardi incrociati, di silenzi ascoltati, di gesti intercettati. E di riti che appartengono a Catania. Alla sua gente. Alla comunità del territorio.

Appare il busto di Sant’Agata che illumina con la sua presenza le speranze di tutti. Ed alle 6 in punto parte la celebrazione della Santa Messa dell’aurora: la prima di Monsignor Luigi Renna.
La sua sarà un’omelia prorompente e di altissimo profilo. Fuori dalle banalità e dai giri di parole. Dritta alla realtà quotidiana ed alle sofferenze della città. Chiama in causa Don Pino Puglisi, il giudice Rosario Livatino e Fratel Biagio Conte. Non si sottrae nel ribadire quanto irrinviabile sia quel “portare la croce” che dovrebbe incarnare la missione di ogni devoto e di qualunque cittadino:
Riprendetevi la croce di dover decidere della vostra vita, di dover dire il vostro pensiero sulla città, sulla politica, sulle scelte di chi vi ha governato e vi governerà“.

Come dire: la Bibbia su una mano ma il cuore critico e responsabile sull’altra. A fine predica, l’applauso arriva con qualche istante di differita ma convinto. Erano parole non dovute, quelle di Monsignor Renna: non dovute ma necessarie. E che restituiscono speranza ad una città che sapeva di averne bisogno.

L’omelia

Ecco cari fratelli e sorelle,
autorità civili e militari, presbiteri, diaconi e consacrate,

è davanti ai nostri occhi il busto reliquiario di Sant’Agata, accanto all’altare dove si rinnova il sacrificio di amore di Cristo. Nella bella effigie che ammiriamo, la nostra Santuzza stringe in mano la Croce gemmata, lo strumento di supplizio divenuto manifestazione dell’Amore di Dio, che ci viene presentato in tutto lo splendore con cui lo canta la liturgia del Venerdì santo: “Ecco il vessillo del Re, rifulge il mistero della Croce, attraverso cui la Vita sopportò la morte e rese con la morte la vita”. Nelle mani di sant’ Agata quella croce è un trofeo della vittoria che ha conseguito ripercorrendo nel carcere, nelle torture e nel supplizio i patimenti di Cristo; nelle sue mani risplende la croce gloriosa perché attraverso di essa si è fatta simile al Suo Sposo per amarlo e non rinnegarlo; oggi Sant’ Agata la ripropone a noi come il trofeo di vittoria che è il suo vanto.

La nostra Aituzza

La nostra Aituzza è la perfetta discepola di cui Gesù ha detto nel Vangelo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce  e mi segua”. Agata aveva deciso di seguire il Signore, come tanti uomini e donne in un tempo nel quale essere cristiani era molto rischioso: si rischiava l’emarginazione, perché si era minoranza; o l’arresto, perché si era guardati come una setta; si rischiava di essere messi a morte se non si rinnegava Cristo e si sacrificava alle divinità pagane. Eppure lei ha scelto di essere cristiana in tempi rischiosi.

Un ricordo quasi spiazzante

Ma pensate che ci sia un tempo nella storia dell’umanità in cui non è rischioso essere e rimanere cristiani? E’ stato rischioso per don Pino Puglisi, perché un parrino a Palermo, al quartiere Brancaccio, doveva rinnegare o la croce o la mafia che voleva mettere le mani sui giovani della sua parrocchia. E’ stato rischioso essere un magistrato che come cristiano portava la croce di occuparsi di criminalità organizzata, scelta consapevole con la quale Rosario Livatino ha abbracciato la sua responsabilità sotto la tutela di Dio. E così Biagio Conte: ha corso il rischio di non girare la testa dall’altra parte davanti alle povertà, e di rinunciare a stare sereno e quieto nei salotti che frequentava: ha venduto tutto ed ha seguito Cristo, per fare qualcosa che infondesse speranza ai poveri.   

Prendete la croce

Ecco, il Signore ci ha dato in Sant’ Agata, nei martiri e nei testimoni di carità a noi vicini nel tempo, l’esempio di come si porta la croce dietro Cristo e ci insegna che la fede è per uomini e donne che vogliono correre il rischio di seguire il Signore.  “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”. Cosa significa rinnegare se stessi, portare la croce, perdere la vita? Non è la rinuncia per un qualsiasi motivo alle legittime esigenze e ai diritti che ciascuno ha, ma la scelta di abbandonare le ristrettezze del nostro “io” per un motivo più grande. Rinnegare se stessi è l’atteggiamento del discepolo che, come il Cristo non è più rivolto ai propri interessi, anche a quelli legittimi, ma è totalmente libero per gli altri. “Prendere la croce” significa essere disposti ad accogliere tutte le conseguenze della scelta fatta e avere il coraggio, come Gesù, di trasformare il sacrifico in un gesto di amore. Noi pensiamo spesso di salvare la nostra esistenza chiudendoci in noi stessi, alzando barriere nei confronti degli altri, calcolando vantaggi svantaggi in termini umani, usando anche la forza e forse anche la violenza. Noi tante volte non vogliamo rischiare di portare la croce dietro Cristo, ma preferiremmo essere come san Pietro, che voleva essere lui a dire a Cristo cosa doveva fare, cioè cosa non doveva rischiare. Gesù Cristo invece propone al suo discepolo un progetto di vita diverso e rischioso: la vita si salva aprendosi a Dio, all’amore del prossimo, e donandosi. 
Gesù dice che la croce bisogna portarla “ogni giorno”: il rischio di essere cristiani non è un abito per i giorni di festa, ma è un impegno quotidiano, come la tuta da lavoro o il grembiule della casalinga che vengono indossati nei giorni feriali, che sono di più dei giorni di festa. 

Catania

Catania ha bisogno di uomini e donne che come sant’ Agata sappiano portare la croce delle loro responsabilità, che corrano il rischio di essere cristiani tutti i giorni e in tutti i luoghi di questa città. C’è tanta gente che porta la propria croce in silenzio e dignitosamente: sono i “santi della porta accanto”. 
Portano la croce quelli che hanno un lavoro precario, che dalla mattina alla sera, forse anche portando a casa uno stipendio magro, mantengono integra la loro dignità, rinunciando ad essere messi al soldo della mafia. Portano con dignità la croce quei catanesi che non cedono al ricatto di un guadagno facile e disonesto. Portano la croce con dignità coloro che soffrono perché hanno una persona malata nella loro famiglia e se ne prendono cura senza conoscere un giorno di pausa, come la cosa più normale del mondo, perché è normale amare e non trascurare. Porta la croce di figli, mariti, mogli, che hanno problemi con la giustizia, e vuole correre il rischio di uscire dal cerchio magico che li ha ingannato; portate la croce voi che con grandi sacrifici state facendo di tutto perché i vostri figli, attraverso la scuola, costruiscano un futuro che non ha come obbiettivo la strada o il carcere. Portate la croce voi che abitate nei quartieri dove un Comune in dissesto finanziario da troppi anni non vi può assicurare alcun servizio, e in cui le luci delle strade sono così rade che vi siete rassegnati ad illuminarvi alla luce della luna, e in cui i negozi improvvisati sulla statale sono il mercato di periferie che non hanno neppure aree mercatali.  Non abbiate paura di rischiare e di puntare tutto sulla fede, sull’onestà, sull’amore per la famiglia e per il futuro dei vostri figli. Riprendetevi la croce di dover decidere della vostra vita, di dover dire il vostro pensiero sulla città, sulla politica, sulle scelte di chi vi ha governato e vi governerà.  

Il rischio di essere Chiesa

E dico a me, vescovo e a voi cari presbiteri e diaconi, operatori pastorali e  religiose: prendiamo la croce di ogni giorno, di costruire una comunità che sappia dare testimonianza di amore e di concordia, che non si fermi a giudicare la nostra gente con superficialità e scarsa empatia, ma sappia ascoltarla in questa stupenda stagione del cammino sinodale, che vuole restituirci il rischio di essere una comunità che segue Gesù Cristo e non vuole “insegnare” la strada al nostro Maestro. Chiediamo la pazienza di accompagnare, di aspettare, di scommettere sui luoghi in cui Dio stesso ha scommesso, le periferie dell’umanità. Se faremo questo avremo corso il bel rischio di essere Chiesa, la comunità dei discepoli del Signore, che porta la croce della testimonianza ed evangelizza, contagiando il mondo con la sua carità. E anche voi, uomini che avete a cuore il bene comune nell’amministrazione pubblica, nelle forze dell’ordine, in campo educativo: sappiate perdere la vita come Agata, portando ogni giorno la croce di chi rifiuta il compromesso e fa crescere l’onestà. Se voi porterete bene la vostra croce, la città risorgerà.

Agata

Oggi Agata ci sorride e ci presenta la croce, perché il nostro popolo di devoti sappia portarla e dire con lei: “Ecco il vessillo della Croce, ecco il vessillo della mia vita. Un vessillo di amore!”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI