I laziali espugnano anche la Sicilia e ribadiscono il concetto: primi in classifica a quattro lunghezze dall’Inter. Certo, tutto è relativo. Ma chi non ha memoria corta comincia a ricordare che nel 1991 vinse il tricolore la Sampdoria, nel 2001 la Roma. E se nel 2011, dice chi ha la memoria buona, fosse l’anno di un’outsider? La Lazio?
Qualcun altro, sempre ben messo a fosforo, abbozza dei parallelismi col Verona di Bagnoli. Correva l’anno 1984-85: c’era il sorteggio integrale degli arbitri, Craxi era il presidente del Consiglio, Michael Jackson e altri cantavano We are the world. Un contadino socialista della Bovisa con dei trascorsi da calciatore, tale Osvaldo Bagnoli, riusciva nel miracolo e contribuiva a fare vincere lo scudetto a una provinciale, l’Hellas appunto. Briegel non era Lichtsteiner, come Floccari non è Larsen Preben-Elkiaer. Garella, goffo ma efficace, parava coi piedi, ma non era da meno rispetto a Paperino Muslera, che pure a Palermo ha salvato la partita. Ma Di Gennaro non era più forte del profeta Hernanes. E anche Zarate può dire la sua rispetto a Nanu Galderisi. Ricorsi storici. Dal settore ospiti ironicamente e per scaramanzia intonavano «Resteremo in serie A», sul leit motiv di «Vinceremo il tricolor». I cavalli di razza, del resto, come si dice in questi casi, si vedono all’arrivo.
Dolcetto o scherzetto? Ad Halloween, festa americana d’importazione, il Palermo va a male. Come di fronte a un bambino smorfioso, vestito di tutto punto con zucche, scope, e tutto il tetro armamentario, la banda Rossi sceglie la mano sbagliata. Esce fuori lo scherzetto, quello subito dalla Lazio. Inizialmente la Sturmtruppen rosanero sembrava non avere patito l’anticipo all’ora della pasta al forno, sebbene dal settore della Curva Nord in cui stazionano quelli del Borgo Vecchio Sisma, uno striscione recitasse: «… A favorire». Partiti forte i rosa col trascorrere dei minuti hanno perso lucidità anche a causa di qualche discutibile decisione arbitrale. Sfortuna o meno, l’emblema del tutto è rappresentato proprio dal gol. La Lazio, fino ad allora contropiedista per necessità, trovava il jolly con un’irripetibile girata di Dias, difensore brasiliano giunto nell’area del Palermo giusto per complicare la vita ai rosanero, un missile diretto all’incrocio dei pali. La reazione di Sirigu è quella di una statua: fermo.
Delio Rossi si fa equilibrista sulla questione della meritocrazia. «La Lazio è prima perché se lo merita» aveva dichiarato sportivamente alla vigilia del match. «Abbiamo perso immeritatamente», dice dopo la gara. In entrambi i casi sembra avere ragione. Alla fine dei giochi, l’imperativo categorico in casa rosanero indica il pari come il risultato che sarebbe stato più «giusto». La giustizia, anche stavolta, non ha visto rosa. Pastore, sulla falsariga di Udine, non ha illuminato, così come gli sloveni: in avanti fari spenti. Tendenza che persiste con l’inserimento di Hernandez, subito infortunatosi, e dell’anonimo Maccarone. Lodevole la grinta di Balzaretti. Grinta, appunto: ecco la base da cui ripartire, domenica prossima, contro i pari livello del Genoa (entrambe le squadre sono appaiate a 11 punti in classifica) e prima ancora mercoledì contro il Cska Mosca.
Per il resto tanto rammarico per quello che poteva essere e non è stato, nel costatare che quei paragoni col Verona se li prende la Lazio e non il Palermo. Vince il Napoli a Brescia e si accoda a Juventus, Milan e Inter, nell’ordine quarta, terza e seconda, dietro appunto alla capolista Lazio, attesa la prossima settimana dal derby contro una Roma un po’meno tramortita dopo i segnali di vita manifestati sabato scorso contro il Lecce. Cassano fa una “cassanata” contro il patron Garrone – prove di separazione a gennaio? – e poi chiede scusa e da figliol prodigo afferma: «Voglio restare alla Samp». Anche per gli altri è Halloween. Forse anche questo è uno scherzetto.