Scontri, rancori e cognomi: le ceneri dell'antimafia

Scontri, rancori e cognomi: le ceneri dell’antimafia

Gli scontri del 23 maggio, le tensioni. Mentre si avvicina il 19 luglio.
23 MAGGIO E 19 LUGLIO
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Povero Giovanni Falcone. Povera Francesca Morvillo. Povero Rocco Dicillo. Povero Antonio Montinaro. Povero Vito Schifani. Tutto avrebbero immaginato, tranne che la loro memoria potesse trasformarsi in un campo di battaglia, nella ridotta intorno all’Albero Falcone. Gli scontri del 23 maggio hanno aperto una ferita collettiva che difficilmente sarà rimarginata. Chi non avverte un simile dolore appartiene alla terra senza patria degli indifferenti.

Ci sono diverse cause di un così catastrofico effetto. Il serpeggiare di un antagonismo autoreferenziale – un riflesso condizionato del dissenso – che ha inaugurato la stagione delle contestazioni: per cui ogni occasione diventa quella buona ed è preceduta da fibrillazioni. Una gestione degli eventi che, nel giorno del trentunesimo anniversario della strage di Capaci, ai livelli decisionali più alti, ha mostrato più di una smagliatura. Nella cosiddetta ‘contromanifestazione’ abbiamo visto, soprattutto, sindacalisti conosciuti ed equilibrati. Professori e studenti.

Ma il punto è politico e lambisce il contesto palermitano. C’è una destra al potere e c’è una sinistra all’opposizione. Entrambe rivaleggiano nell’intransigenza e nel disprezzo dell’avversario. Ecco perché gli appuntamenti pubblici offrono un potenziale terreno di scontro, variamente declinato, in qualsiasi scenario.

A Palermo, la divaricazione di fondo si è mescolata con i rancori vecchi e nuovi dell’antimafia. In quel calderone non manca nulla. Ci sono le mitologie trasversali su trattative e depistaggi che ignorano le sentenze, o le deformano, perché l’importante è perpetuare una sorta di guerra di religione all’ultima invettiva. Ci sono le retoriche che si accapigliano, evitando, accuratamente, di discutere le circostanze in sé.

C’è una antimafia ‘da palco’, ormai sclerotizzata nelle sue proposte, impegnata a specchiarsi con stanca ritualità, che sta perdendo progressivamente la sua funzione simbolica. C’è pure una antimafia ‘privatistica’ che sceglie con cura il prossimo obiettivo per metterlo immaterialmente a reddito nella galleria dei successi.

E c’è una antimafia ‘dei cognomi’. E qui è meglio essere nitidi, più che chiari. Nessuno vorrebbe mai assumere le sembianze di una vittima di alcunché. Se ti ci trovi, cerchi di procedere con dignità. Non c’è chi abbia il diritto di investigare il dolore smisurato della perdita, all’interno di rapporti umani sacri, per emettere inopportune sentenze. Ma anche gli altri hanno il diritto di avere un’opinione, senza subire demonizzazioni in caso di parere difforme.

Invece, troppo spesso, l’antimafia, per così definirla, ufficiale ha stilato liste di proscrizione, esorcizzando i reprobi. Perfino l’immenso Leonardo Sciascia – con cui sarebbe stato lecito non trovarsi in accordo, però all’interno di una dialettica – venne definito un ‘quaquaraqua’ dai detentori della loro stessa autoproclamata purezza.

Come fare a questo punto per recuperare lo spirito autentico, di condivisione delle differenze, che caratterizzava gli anni immediatamente successivi al tremendo ‘92? Basterebbe compiere un atto semplice e definitivo, un gesto disinteressato di coraggio, qualità che lo rendono quasi inimmaginabile. Bisognerebbe sotterrare il livore e gli interessi ai piedi dell’Albero Falcone e dell’Albero della pace in via D’Amelio. Troppi siciliani di buona volontà sono morti per regalarci una speranza.

Nei loro luoghi, nei pensieri che li riguardano, nelle emozioni che proviamo è necessario costruire terreni di incontro tra lontananze. Altrimenti rimarranno le ceneri dell’antimafia, dopo i falò della rabbia. Il diciannove luglio si avvicina. Se qualcuno intende soffiare sul fuoco sappia che prenderà su di sé una enorme responsabilità. Noi speriamo di non inaugurare un altro mesto elenco: povero Paolo Borsellino… (Roberto Puglisi)


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