Se un gatto ingrassa | come un cassonetto... - Live Sicilia

Se un gatto ingrassa | come un cassonetto…

La leggenda e la metafora
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Più che materia da Forestale, la pantera di Palermo, sembra un problema da
Caritas, e c’è da credere che voglia essere stabilizzata perché 50 cm e 35 chilogrammi (così sembra che sia) fanno di questa “precaria” d’Africa, il Fassino della sua specie,  magra da flebo e da 118 se l’assessore Massimo Russo permetterà il ricovero previa presentazione di certificato anti-Firrarello. Insomma questa pantera fa  ridere Dante «una lonza leggiera e presta molta/ che di pel macolato era coverta/ e non mi si partia dinanzi al volto», tanto da nascondersi e riapparire come Giuseppe Lupo: si spaventa di se stessa.

Eppure questo  “gattone” che si è perso dopo essere stato avvistato, paparazzato in via  Bronte, conferma ancora una volta che in Sicilia c’è spazio per il mito  e che la caccia è il mestiere dei disoccupati; che una pantera è un buon affare per celare il malgoverno ma aprire la terra fertile dei siciliani: la lingua.
La pantera già manca perché fino ad un nuovo avvistamento riporta Palermo sulla terra e non permette quindi lo sfogo del racconto, della ricerca, quella che serve ad attacare bottone a fare di un gruppo d’amici, opinionisti da salotti, specialisti e professori di Panterologia. Così il maialino usato come esca, più che un tranello scientifico sembra una trovata da Lemon Soda, come se a Berlusconi date una bambola gonfiabile pensando che tanto quello ci casca sempre. Le leggende metropolitane sono come le dicerie, nascono nelle difficoltà e si alimentano nei periodi bui quando è facile credere per sentito dire, quando c’è necessità di parlare e uccidere la notte; come dice Gesualdo Bufalino nell’incipit del suo romanzo è  “il troppo discorrere intorno a persona o cosa”. E’ segno di fragilità perché la leggenda sta alla radice della cattiva giustizia, è un’Inquisizione volante che nessun decreto sopprime: una volta diffusa rimane impregnata nei racconti e aspetta di rinascere come la peste. Nei paesi che succhiano lava all’Etna c’è ancora chi giura di aver visto Salvatore Giuliano dopo che sia morto, chi ha avvistato un leone bianco;  addirittura i matti del paese dicono che sui Nebrodi si nasconda Osama Bin Laden (speriamo che non lo sentano gli americani! Sic!) ma alla fine  l’unico che ha ragione è il contadino che ha avvistato la volpe mentre si mangiava le sue galline e lo salutava. Eppure questa pantera vera o inventata che sia, non si lascia catturare, sembra assetata di libertà come le Pantere nere -il movimento di liberazione afroamericano- come i ragazzi che si sono vergognati nel vedere le statue dei giudici divelte, come i ricercatori dell’Università di Palermo che vogliono bloccare la didattica: essere un po’ pantere e non più gattini con il collare dei baroni. Credere alla pantera è stato l’esercizio dell’estate come il sudoku dei giornali, continuare a credere è come aspettarsi una maggioranza regionale che sia politica e non leopardata da tecnici che sono unghie di felini.

E’ diventata un feticcio e in questa Italia da gruppi, guappi, logge anche la pantera ha la sua, riceve lettere e sarà presto invitata da Vespa se non voterà la fiducia alla Forestale. E invece, forse la pantera è davvero una mutazione del gatto palermitano: una piccola pantera ma un grasso gatto obeso che si ciba dei resti di una città: un mostro che è cresciuto come il cassonetto, come questa capitale che è diventata la mecca dei senza lavoro, dei senza verità, delle troppe verità, dai troppi partiti di parte ma senza arte. La pantera è come nell’unica foto diffusa, una macchia d’inchiostro, una firma all’ultima infornata di dirigenti, è un gettone di assenza più che di presenza o le cattive parole di Daverio: l’educazione che gli è fuggita via dal papillon. Dare la caccia alla pantera serve soltanto a dimenticare il profumo dei fiori, seguire la sua scia a non guardare quella del percolato. Se ne è andata da Palermo e non riposa sotto i maestosi ficus di Piazza Marina, bensì sotto casa: anche una città sporca azzanna l’occhio come una pantera, anche un paese che si corrompe è una pelle chiazzata ovvero un tricolore bucherellato…


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