Selinunte, le ragioni del paesaggio e la nemesi della ricostruzione - Live Sicilia

Selinunte, le ragioni del paesaggio e la nemesi della ricostruzione

Dal paesaggio della rovina alla nemesi della ricostruzione: riflessioni sull’anastilosi del tempio G - di Gabriele Mulè*
L'ANALISI
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Dal paesaggio della rovina alla nemesi della ricostruzione: riflessioni sull’anastilosi del tempio G – di Gabriele Mulè*

Alta su un promontorio dominante la costa siciliana, lungo le antiche rotte tra oriente e occidente, Selinunte mostra anche nella sua morfologia il profilo sfrontato di chi ha scelto di non avere vita facile. Dall’opulenza all’abbandono, dalla guerra al cataclisma, fino agli allori del turismo europeo, l’antica polis fondata nel VII secolo a.C. è stata protagonista di una straordinaria serie di eventi della storia. È un fatto, tuttavia, che, al cospetto degli ultimi due millenni, le più deliberate alterazioni del paesaggio selinuntino siano avvenute nel breve scorcio degli ultimi cent’anni. Un soffio di tempo, l’ultimo arco di secolo, che ha lasciato la sua firma sotto il nome ricostruzione. Ricostruzione del tempio C (1925-27), ricostruzione del tempio E (1959), oggi l’annunciata ricostruzione di parte del tempio G, tre colonne, con un’operazione dal costo di 5 milioni di euro. Curiosa nemesi, questa costante ricostruzione di un paesaggio la cui cifra è proprio la rovina e che nel segno della contemplazione della rovina, dello scorrere del tempo, della distruzione e dell’oblio, ha suscitato alcune delle esperienze estetiche più intense, potenti e rivoluzionarie degli ultimi tre secoli.

Vi è, infatti, nella parabola del paesaggio di Selinunte quanto servirebbe ad una vita intera di meditazioni sulle vicende umane e sulla Natura.  Estrema colonia occidentale, quasi avamposto, cuneo greco insinuato a forza in terra di confine tra i Fenici di Mozia e gli Elimi di Segesta, si impose con la determinata ambizione di chi conosce la miseria. Hanno un che di rivalsa i favolosi templi che la città eresse sulla collina orientale e che, probabilmente, inducevano sensazioni affini a quelle dello skyline di New York: visibili a distanza, sfoggiati più che disposti, sovrumani per dimensione, e sfacciatamente colorati come non riusciremmo ad immaginarli. Il tempio G sovrastava tutto per dimensioni, 110 metri per 50, una selva di colonne, 47, alte 16 metri. I cartaginesi espugnarono tragicamente la città nel 409 a.C. Nel luogo rimasto deserto in epoca altomedievale attecchirono eremiti che sfilarono silenziosamente nel regno delle ombre. Un terremoto, forse in epoca bizantina, ne atterrò i templi e, sotto i cumuli delle rovine gigantesche, di Selinunte si seppellì perfino il nome.

Rovine, dunque, rovine spazzate dal vento nella Terra di Pulici. E furono quelle rovine a divenire meta leggendaria, frequente, desiderata, dei viaggiatori del Grand Tour, quando il vento del gusto spirò di Sicilia e Magna Graecia, e dalla seconda metà del Settecento l’Europa recuperò la memoria della virgiliana palmosa Selinus. Francesi, tedeschi, britannici, una moltitudine la osservò dal mare e dalla terra. Venne percorsa, ritratta, raccontata, ed i viaggiatori ne fecero esperienza estetica sfaccettata e complessa, decifrandone il paesaggio. Viaggiatori capaci di trarre simmetria, proporzione, ordine e stile da quegli ammassi scomposti, di rievocare, come Denon nel 1778, Selinunte ed i suoi templi. Col passar del tempo, scrive, presi confidenza con i frammenti colossali, e poco alla volta ne colsi la misura. Cominciai così a distinguere progetti compiuti dove prima non vedevo che disordinati mucchi di rovine. Risorgeva Selinunte, finzione nella mente, con la malìa di una Fata Morgana irretiva i sensi; a taluni, lo testimonia Henry Swinburne (1777), le sue colonne smozzicate apparivano a distanza come una gran città viva e affollata da campanili, dimora, invece, di silenzio e desolazione. Svanita l’illusione non c’era spazio per l’amarezza del disinganno: si stagliavano le più grandi e sublimi rovine che si possano immaginare, da contemplare in tutte le tinte ed ombre del tramonto, dei raggi della luna, dell’alba del giorno venturo.
Le rovine sconvolte permanevano agli occhi dei viaggiatori come eterne, e non per la lentezza del loro modificarsi, per l’erosione impercettibile. Sembravano eterne perché immerse nel teatro naturale dell’effimero, nel mutevole gioco della luce e del vento, circondate dal ciclo vitale delle piante e delle pratiche agricole, dal rinnovarsi del ciclo cosmico delle stagioni. Rivelatrice, in questo senso, l’opera del grande paesaggista Pietro Porcinai che negli anni ’80 del secolo scorso estromise dal parco archeologico la presenza estranea della contemporaneità, delle strade e degli agglomerati urbani, concesse nuovo spazio alle piante, mantenne al suo interno vigneti, oliveti, pascoli ed ovini persino, accolse cioè la vita campestre ed i suoi ritmi. Cercava di interpretare e ristabilire quella fragile condizione di equilibrio che, in bilico tra ogni presente e l’eternità del tempo senza l’uomo, Selinunte in rovina offriva, offre tutt’oggi, come chiave universale per un diverso modo di sentire, per nuove forme di bellezza. Nelle parole di Marc Augé: Contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro.

È la percezione della magnitudine nella misura del tempo e delle cose, certo, ma anche della bellezza che nasce dalla complessità del territorio. Richard Colt Hoare ne fa esperienza nel 1790, confesso, scrisse, che le rovine mi diedero più piacere del perfetto e ben conservato tempio di Segesta dove l’ordine e la simmetria dominano sulla percezione dell’effettiva dimensione. Ma tra le rovine di Selinunte l’occhio vaga attonito posandosi su queste enormi masse, sparse al suolo nella più selvaggia confusione. Poi lo sguardo si allarga, abbraccia il territorio, e Hoare viene sorpreso: la vista spazia sull’altopiano, circondato dal mare, si sofferma sulle rovine ed i templi di Selinunte, mentre attorno una gran varietà di alberi da frutto e le coltivazioni estese sfoggiano l’aspetto di un giardino senza fine. Ecco, d’improvviso, il paesaggio. Un’intuizione di bellezza che non nasce né da un tempio greco tutto d’un pezzo, né dalle sue membra disarticolate, dagli obliqui rocchi di colonna, dai ciclopici capitelli rovesciati: prorompe dall’insieme dei molteplici elementi che, come le rovine, compongono il paesaggio di Selinunte. Alla specializzazione dell’archeologo, alla specificità del botanico, a chiunque sia curvato dal peso della propria parzialità scientifica, sfuggirà l’intima connessione tra le parti, il panteismo d’insieme, ed il senso della bellezza di questo paesaggio, pure sedimentato da ricchissime testimonianze di viaggiatori d’ogni tempo.

Nel dibattito aperto dalle frequenti ricostruzioni, il paesaggio è sovente rimasto ai margini dei temi posti dal restauro e dall’archeologia. Al più una vaga questione ambientale, un blando riferimento al contesto. Oggi la questione non può essere relegata in soffitta. Al netto delle pagine scritte da grandi studiosi ed intellettuali (da Brandi a Sebastiano Tusa, da Sgarbi a Valerio Massimo Manfredi) pro e contro le anastilosi dei templi selinuntini, il tema del paesaggio non interviene riguardo il valore del monumento una volta ricostruito, se sia più o meno autentico del suo stato di rovina, così come non mette in discussione i prospettati progressi, in termini di conoscenza e salvaguardia. Pone il dato di fatto incontrovertibile che un’altra ricostruzione alteri e comprometta ulteriormente l’integrità storica ed estetica di una delle componenti fondative del paesaggio di Selinunte (paesaggio ormai classico, sul quale sono state scritte pagine di alta poesia, un paesaggio che aveva ormai un suo valore culturale così come esso era, commentava Bianchi Bandinelli). Problema non da poco una simile presa di coscienza, perché introdurrebbe in agenda non solo un momento di generale riflessione da un punto di vista ancora poco approfondito, ma anche, a seguire, uno spinoso tema: il cambiamento connaturato al paesaggio selinuntino, al paesaggio in generale, e come governarlo accettando il corso naturale delle cose.
Il cambiamento e come governarlo, in un’epoca che ricerca ed esibisce una sempiterna giovinezza, comporta uno sforzo rivoluzionario: fare pace con l’idea che tutto abbia una fine. Il che non sottende una stoica predisposizione alla morte subitanea, piuttosto una sana, composta educazione ad invecchiare, alla perdita ed all’oblio. Soccorre, in questi casi, l’ironia tutta francese di Pennac: Invecchiare, che orrore – diceva mio padre – ma è l’unico modo che ho trovato per non morire giovane.

  • Architetto, studioso di storia del giardino e del paesaggio. Viaggia nel long eighteenth-century tra giardini da sogno, vulcani in eruzione ed inaccessibili vette alpine. Ha presentato le sue ricerche presso alcune prestigiose università britanniche (Oxford, Saint Andrews). Ha pubblicato: Il Giardino Esteso. Da Alcamo a Selinunte sulle strade di Henry Swinburne, viaggiatore del Grand Tour (2008); Il Vulcano di Enea. Dal Vesuvio all’Etna: Storia di un favoloso Grand Tour nell’Italia del 1766 (2019).

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