L’anniversario della strage in cui perirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro si celebra in un clima di degrado per la città di Palermo e di pesante difficoltà per le istituzioni regionali. L’immondizia – problema che secondo un sindaco con un mirabile senso dell’umorismo sarebbe già piernamente risolto – è quasi una metafora fisica della decadenza di valori e di senso del bene comune. La mafia militare è in un momento di crisi, la mafia come marchio subculturale alligna, resiste e macina consenso. Palermo è una spelonca senza solidarietà, senza servizi e senza speranza. Un lenzuolo formato da innumerevoli fantasmi: i suoi cittadini che hanno perso la capacità di comprendere, di scegliere e di votare bene. Il ricordo del sangue del ’92 ci rammenta il sacrificio degli innocenti e dei buoni. Il confronto tra ora e allora risulta perfino più doloroso, di un dolore inversamente proporzionale al lutto per le stragi, se specchiamo la rivolta di ieri nell’ignavia di oggi. Cinicamente e orrendamente, verrebbe da dire che sarebbero indispensabili due stragi a ogni estate per scuotere l’immobilità. Ma forse niente più potrebbe smuovere nessuno. Le stragi del ’92 provocarono un logico moto generale di sdegno. Non è stato rinfocolato quel sentimento, non è stato protetto, non è stato incanalato in uno schema, in una proposta duratura di cambiamento. Si è raggelato nella retorica delle parole, dei paroloni tromboneggianti che abbiamo sentito e che sentiremo e che non significano nulla. Perché provengono da bocche che elogiano i giudici morti, per fiocinarli meglio in vita.
Al vertice, sulla poltrona più alta della Sicilia, c’è un uomo che tratteggia un futuro luminoso di rinnovamento. Eppure i soliti giudici lo minacciano da vicino. E alcune pratiche parassitarie tra burocrazia e politica somigliano troppo al passato per autorizzare la fiducia in bianco. La mano di vernice di Raffaele Lombardo non nasconde le crepe. Le accentua. Intanto, gli incorruttibili dell’opposizione, che dovrebbero, se non altro per definizione, indicare un’alternativa, siedono allo stesso banchetto del potere, immaginando governi tecnici, vagheggiando probabili e ricche tavole imbandite.
La beffa è atroce. L’unico interessato alla verità, a un fascio luce su quegli anni terribili, l’unico in grado di fornire indizi ancorchè tutti da valutare, parrebbe essere il figlio di un noto capomafia, folgorato sulla via di Damasco. Gli altri tacciono. Il pubblico guarda lo spettacolo del disvelamento del mistero con molto senso sportivo. E’ un palpito da fiction. Abbiamo dato a ogni cosa il nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dimenticarli meglio. La frase grande e onesta di Borsellino: “Un giorno questa terra sarà bellissima”, appesa al cuore di questi tempi grami, è uno scherzo, ci stringe in una tristezza infinita. Certo, c’è Addio Pizzo, come ripetono coloro che sfruttano il sudore di quei meravigliosi ragazzi per farsi più belli. Loro sono i figli appassionati della rivolta alle stragi e di Libero Grassi, amati da tutti sotto i riflettori mediatici, avversati sovente da trame oscure pensate in cantina da personaggi equivoci. E poi?
E poi ci siamo noi siciliani. Noi che scriviamo e noi che leggiamo. Noi che raccontiamo, noi che prestiamo fede al racconto quando è almeno onesto e non amiano le patacche. Ci siamo noi, la minoranza silenziosa che ama davvero questa terra, senza chiacchiere né distintivi. Noi oggi offriamo una memoria misurata, problematica e gravata da cupi presagi. Sappiamo che i fatti sono sotto gli occhi di tutti e che i nostri lettori vogliono da noi il vizio della sincerità. Altri si riempiranno le guance di frasi piene d’aria e di retorica. Non ascoltiamoli. Sarà un piccolo modo come un altro per cominciare a cambiare davvero.
Sì, cambiare, nonostante tutto. Provarci. Perché c’è solo una ipocrisia più oscena della finzione dei benpesanti che affermano che siamo sulla retta via del progresso, sapendo di mentire. E’ l’alibi meschino di chi si arrende, di chi allarga le braccia, di chi osserva con distacco il sangue che gli altri hanno versato anche per lui e dice: non c’è più niente da fare.
Noi preferiamo la dolce utopia di Paolo Borsellino.
Ps. Altrove questo pezzo è stato accusato di mancanza di rispetto nei confronti di magistrati e istituzioni. Vorrei rassicurare i critici: le parole e le opere dei giudici coraggiosi, come il procuratore Pietro Grasso, faranno sempre parte dell’Italia migliore, a parere di chi scrive. La mancanza di rispetto, se c’è, è tutta orientata verso certi politici e certa politica. Sarà ben meritata?