Sicilia, elezioni amministrative: l'analisi del voto - Live Sicilia

Sicilia, elezioni amministrative: l’analisi del voto

Il clima politico, le alleanze, i nuovi equilibri
LA RIFLESSIONE
di
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Tentando a mente fredda un’analisi sulle recenti elezioni amministrative svoltesi in grandi e piccole città del nostro Paese, compresa la Sicilia, occorre iniziare da una elementare considerazione: non si possono trarre conclusioni assolute. Le elezioni comunali, infatti, risentono certamente del clima politico generale ma mai da oscurare aspetti prettamente locali, a cominciare dai conflitti tra fazioni nei centri piccoli e medio piccoli, dal buon governo o meno dell’amministrazione uscente, dalla qualità dei candidati proposti nei tempi giusti dalle forze politiche e dal programma dell’aspirante alla carica di primo cittadino. È vero pure che gli elettori approfittano di qualunque occasione per mandare un messaggio ai partiti e a chi governa, un messaggio che può tradursi, in negativo, nell’astensionismo, fenomeno purtroppo sempre più consolidato e di proporzioni assai allarmanti. Abbiamo sentito nelle settimane scorse commenti abbastanza trancianti, tipo: “È la fine del populismo e del sovranismo”, riferendosi alla significativa dèbacle della Lega, oppure: “Il PD vince se alleato con il M5S e quest’ultimo perde pesantemente se corre da solo”, oppure ancora: “Si è affermato un forte bipolarismo a danno dell’area di centro”. Valutazioni frettolose e incaute, di definitivo non c’è nulla e le elezioni politiche sono un’altra storia, al netto di eventuali modifiche del sistema elettorale. C’è chi pensa che i risultati delle elezioni, che hanno decretato un indiscutibile successo del centrosinistra, rafforzano Palazzo Chigi e chi è convinto, al contrario, che lo indeboliscono. In realtà, è complicato anche per un mostro sacro come Mario Draghi tenere in piedi troppo a lungo un governo nato secondo criteri “ecumenici” dettati da una grave emergenza sanitaria ed economica con dentro soggetti che non starebbero insieme nell’ordinarietà manco sotto tortura. Forse ha ragione Giorgia Meloni quando invoca le urne appena eletto il prossimo presidente della Repubblica per tornare alla normalità.

La Meloni, a dirla tutta, ha il timore di un centrodestra in frantumi a causa dei distinguo pro-governo di Forza Italia e dei volteggi schizofrenici di Salvini; lei vuole essere leader, libera dalle accuse di ambiguità circa le derive neo-fasciste di pezzi del suo mondo di riferimento, di una coalizione salda e produttiva di voti sicuri sennò addio alle ambizioni da premier in pectore. Intanto, se pensiamo alle ingenti risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) la cui disponibilità è condizionata da fondamentali riforme che l’Italia deve varare presto sarebbe opportuno far lavorare il governo, pur con alcune riserve sul suo operato, senza ovviamente rinunciare alla centralità del Parlamento.

Da questo orecchio pare che Salvini non ci senta bene e stordito dalla batosta elettorale è entrato nel panico. Il “Capitano” in giubba verde svezzato sulle rive del Po ha capito che non paga la doppia faccia di chi sta in maggioranza e di chi sta all’opposizione ma evidentemente non fino al punto da decidere, una volta per tutte, quale faccia scegliere. Si è impuntato in maniera palesemente strumentale sulla revisione del catasto e sulla delega fiscale. Dichiara costantemente di non avere alcuna intenzione di lasciare il governo e, al contempo, prova a rimanere in equilibrio tra fedeltà e tentazioni di smarcamento su alcuni temi delicatissimi, pensioni, fisco, green pass, reddito di cittadinanza e immigrazione.

Dal canto suo Draghi va avanti come un treno, almeno fino a quando qualcuno all’improvviso non azionerà il freno d’emergenza. La percezione è che il capo del Carroccio si trovi in enorme difficoltà, specialmente in vista della scelta del nuovo capo dello Stato su cui vuole decidere da protagonista, e non sappia come uscirne, preoccupato, in aggiunta, dei sondaggi calanti e delle critiche ormai evidenti in casa. Sul M5S sospenderei il giudizio. S

e da un lato è comprensibile il dato deludente, e comunque a macchia di leopardo, emerso dalle elezioni – Giuseppe Conte non ha avuto il tempo materiale di imprimere il nuovo corso e poi troppe divisioni e tentennamenti – dall’altro potrebbe nell’immediato futuro meravigliarci se Conte riuscirà davvero a strutturare il movimento sul territorio, grave peccato originale dei grillini, a dargli una identità precisa nel confuso panorama politico italiano e una guida riconoscibile in Sicilia a beneficio degli importanti appuntamenti elettorali del prossimo anno (Palermo e regionali).

Dirigenti ed elettori pentastellati, a partire da Beppe Grillo, dovrebbero seguirlo e sostenerlo, pena la progressiva irrilevanza del movimento stesso. Infine il PD. Probabilmente è stato premiato perché guardato come l’unico partito nel senso tradizionale del termine, meno “liquido” di movimenti e partitini spesso personali e tumultuosi, maggiormente affidabile in tempi di burrasca nonostante il correntismo quasi endemico che conosciamo.

Il segretario Enrico Letta è riuscito a mantenere unito il partito lanciando una campagna di ritorno alle origini uliviste del Partito Democratico (un progetto che dopo il vergognoso affossamento al Senato del disegno di legge Zan contro l’omotransfobia  pare non contempli più Italia Viva di Renzi accusata di tradimento nel segreto dell’urna) e rivitalizzando i circoli sul territorio. Immagino che Letta sappia bene quanto sia precario il consenso conquistato, un consenso inaspettato che se non coltivato nella chiarezza delle alleanze e delle scelte riformatrici potrebbe non replicarsi quando ci si dovrà scontrare nazionalmente con una destra radicale, fascistoide, intollerante e sovranista che sa parlare alle viscere profonde e alle paure razionali e irrazionali di ampi strati del popolo italiano. 


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