“Signor giudice voglio andare in carcere”, ma neppure il giudice, codice alla mano, può accontentarlo. E così un uomo è tornato, suo malgrado, nell’abitazione di Brancaccio dove si trova agli arresti domiciliari e da cui è evaso non una ma tre volte. Meglio la cella che vivere in quell’appartamento con il padre. Tra i due non corre buon sangue.
È una storia che descrive al meglio i meccanismi contorti della giustizia quella accaduta al Palazzo di giustizia di Palermo.
L’imputato è un trentenne, padre di quattro figli che viene sottoposto agli arresti domiciliari per maltrattamenti in famiglia. È pure andato in escandescenza con gesti di autolesionismo davanti a moglie e bambini, dovuta dal consumo di crak.
Non possono rimandarlo nella casa coniugale e allora finisce nell’appartamento del padre. La convivenza è impossibile ed evade tre volte in poco tempo.
Arriva all’udienza, celebrata con il rito direttissimo davanti al giudice Lorenzo Matassa. È agitato ed ammanettato. Può essere pericoloso. Il giudice lo tranquillizza e gli fa togliere le manette, ma appena sa che sta per tornare ai domiciliari perde le il controllo.
Inizia a urlare che in questo Paese non si può neppure finire in galera quando lo si desidera. Ed ha ragione.
Tecnicamente la questione sollevata dall’imputato è fondata, nel senso che nel nostro sistema il giudice del reato di evasione non può mandare l’imputato in carcere perché deve farlo il collega che tratta il reato per il quale è stato arrestato. E cioè i maltrattamenti. Il fatto che sia un plurievaso non conta. Il giudice in questo caso non ha alcun potere, è un mero notaio del diritto.