CATANIA – “Siamo grati a sant’Agata che ci permette di recuperare ogni anno la nostra comune appartenenza di credenti e di cittadini, in un mondo in cui logiche individualiste e divisive entrano nelle relazioni di ogni tipo, e in questo anno in particolare ella ci conduce per mano a riscoprire il senso di una speranza condivisa. Di questa virtù abbiamo bisogno soprattutto nei momenti difficili della vita: riusciamo ad affrontare le difficoltà quando speriamo in condizioni migliori per noi e per tutti”.
Comincia così l’omelia di Monsignor Luigi Renna tenuta nel corso della messa dell’aurora. Una predica ricca di spunti e che richiama anche alla quotidianità di una Catania che oggi riabbraccia la sua Santa.
La speranza
“La speranza è possibile solo a livello del noi, o se si preferisce dell’amore, mai di un io solitario che si chiude nei suoi fini individuali”, scrive il filosofo francese Gabriel Marcel. Quella di una martire sfida l’impossibile, così come ci ha ricordato papa Francesco nella bolla d’indizione dell’anno giubilare: “La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore” (Spes non confundit 21).
La speranza cristiana ha la pretesa di “non deludere”, perché è fondata in Dio e fa dire all’apostolo Paolo: “Chi potrà separarci dall’amore di Cristo?»(Rm 8,35), ma è anche la speranza di una comunità, non di una somma di individui che pensano solo a sé.
Questa virtù ha nutrito il cuore di Agata e l’ha portata a rimanere ferma e solida nelle sue scelte di fede di fronte alla tentazione di tirarsi indietro e di rinunciare persinoal dono dell’esistenza per un bene più grande. La sua era la stessa speranza che noi rinnoviamo nel credo, quella in Cristo che è il crocifisso risorto: in lui vengono rese feconde tutte le aspirazioni di bene, di giustizia e di pace che noi coltiviamo.
“Prendere le distanze”
Ma voi mi direte: quale legame c’è tra le attese che come Città e come umanità abbiamo e quella cristiana? Non sembra quest’ultima semplicemente proiettata alla vita eterna, così da far pensare che i cristiani si addormentano davanti alle proprie responsabilità, inebriati da quello che qualcuno ha chiamato “l’oppio dei popoli”? Sì, la religione diventa oppio che addormenta le coscienze quando rimaniamo alla superficie, quando educhiamo ad una pratica religiosa festaiola che muove le masse ma non educa le coscienze, che le rende manipolabili da chi offre distrazioni e non consapevolezza delle proprie responsabilità.
Prendiamo le distanze da questo modo di fare, che persiste in tante modalità che sfuggono sia ad una progettualità ecclesiale, sia ad un autentico spirito civico! Ricordiamo invece quello che ci ha detto il papa nella stessa bolla di indizione del giubileo:
“Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione”.
Il richiamo al Giubileo
Noi, invece, in virtù della speranza nella quale veniamo salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria» (Spes non confundit 19).
Quella cristiana è la speranza del chicco di grano che caduto in terra muore, ma poi porta il frutto della spiga. È a questo fenomeno naturale che Gesù Cristo ha voluto paragonare la sua stessa morte e risurrezione, associati a sant’Agata e tutti i martiri. Produce molto frutto chi coltiva la speranza della Croce ed ha fiducia nel risorto, chi crede che la dignità dell’uomo non può essere calpestata, perché Dio ha cura di ogni sua creatura.
È una verità di fede, come ci ricorda un grande maestro di vita spirituale, san Francesco di Sales: “Sì, Egli pensa a voi, e non solo a voi, ma anche al più piccolo fra i capelli del vostro capo: è una verità di fede che non bisogna assolutamente mettere in dubbio» (cit. in Dilexit nos, 116).
Il giubileo ci dona speranza, è l’anno che fa memoria di un tempo di grazia che il popolo di Israele si era proposto di vivere, come abbiamo ascoltato, ogni cinquant’anni. Dopo essere entrato libero nella terra promessa, il popolo di Israele sperimentava ancora la povertà e la precarietà. La terra ricevuta da Dio veniva venduta per debiti, alcuni divenivano schiavi, il terreno sfruttato da colture intensive e dal latifondo dava scarsi frutti, i poveri rimanevano esclusi.
In quell’anno giubilare si rimettevano i debiti, si poteva rientrare in possesso della propria eredità, si veniva affrancati dalla schiavitù, la terra poteva riposare e tutti ne mangiavano i frutti spontanei.
Progetti e sogni
Sembra un progetto utopico ed irrealizzabile, ma Dio vuole che la sua umanità si nutra di questi “sogni” che ci portano ad aspirare continuamente all’equità e alla giustizia, a non dimenticare nessuno dei più poveri, a considerare quei beni che Dio ci ha dato come risorse da condividere.
Anche Catania ha bisogno di pensarsi come città alla luce del giubileo. Siamo tutti ospiti in una casa che ci accoglie e che non appartiene a qualcuno in particolare, e ci è data in custodia affinché la consegniamo migliore alle generazioni future.
Catania “casa comune”
Daremo speranza al nostro essere cittadini se considereremo questa “casa comune” della città e dell’ambiente anche la patria di sant’Agata, e come tale la cureremo e l’abiteremo con senso di responsabilità. Sappiamo che per noi cristiani la radice di tutti i mali è il peccato, che quando raggiunge i livelli della vita sociale, diventa una struttura capace di condizionarci fin da quando ci affacciamo alla vita.
Da Sant’Agata attingiamo la speranza nel risorto e quel desiderio di liberazione della patria a cui allude l’iscrizione sulla tavoletta che troviamo sulle sue braccia: mens sana et spontanea honor Deo et patriae liberationem. Una mente e un cuore sano e che si affida con fiducia a Dio, gli rende onore e ha cura che ciascuno di noi venga liberato, come singolo e come comunità, da ciò che ci impedisce di essere liberi.
La speranza ci libera, ma come? Ci viene in soccorso il pensiero di don Tonino Bello, che fa due belle affermazioni. La prima è che non bisogna limitarsi a sperare, ma occorre organizzare la speranza. E poi, alludendo al gesto disperato di Giuda e al grembiule usato da Gesù per lavare i piedi dei discepoli, afferma che Cristo “al cappio della disperazione che stringe la gola, ci fa sostituire il cappio di un asciugamano che stringe i fianchi col nodo scorsoio della speranza”.
Pensiero ai detenuti
La speranza è una virtù che ci spinge all’azione, non ad una semplice attesa passiva del futuro; ed il più grande servizio che si possa rendere all’umanità è sperare per gli altri e con gli altri. Vorrei perciò, da questo luogo santo, accanto a sant’Agata, invitare ad organizzare la loro speranza i nostri fratelli e sorelle carcerati. Cari detenuti, voi vivete temporaneamente la privazione della libertà, ma potete cambiare strada. Siete nostri fratelli e noi crediamo alla parola del Vangelo nella quale Gesù ha detto: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). Egli, il Signore, si è voluto identificare con voi!
È pur vero che avete messo a repentaglio i beni e la vita degli altri, spesso a servizio della criminalità organizzata, soprattutto avete rovinato voi stessi, ma non per sempre! Cari detenuti e detenute, vi invito a guardare nel vostro cuore e liberarvi da quelle catene che vi hanno tenuti prigionieri prima ancora di andare in carcere.
La convinzione che ad esempio, possedere soldi, avere un rolex d’oro o una tuta di marca facesse la libertà della persona, a prezzo dello spaccio, della ricerca del pizzo, delle rapine e delle truffe. E che dire di quanti di voi per avere i soldi per la droga hanno perso il controllo di sé, arrivando ad usare violenza ai propri anziani genitori o hanno spacciato stupefacenti con il proprio bambino in braccio?
L’aneddoto
Guardate dentro il vostro cuore, guardate a Cristo Crocifisso e a sant’Agata: è tempo di cambiare! È tempo di speranza anche per voi! Nel carcere san Pietro apparve a sant’Agata, come narra la sua Passione: un anziano sconosciuto che voleva guarirla, anche se lei sembrava volersi tenere le piaghe come se fossero preziosi gioielli.
Anche voi, cari carcerati avete tante mani tese come quelle dell’apostolo ad Agata, ed auspichiamo che in tutta Italia e in tutti i luoghi di detenzione ci siano condizioni che superino precarietà e sovraffollamento, e ci siano mani pronte a farvi uscire dal tunnel in cui tante esistenze sono entrate.
Oggi a Catania sono quelle delle persone addette alla vostra custodia e cura, i volontari, la scuola, l’università, ma soprattutto, la voce di Dio, il pensiero dei vostri figli e dei vostri genitori, il volto bello e buono di sant’Agata: liberatevi da ogni diffidenza, coltivate la speranza di uscire non solo dal carcere, ma da ciò che vi ha portati ad esso.
Cari detenuti, la Chiesa di Catania, con il segno giubilare Senza catene, vorrà aiutarvi a organizzare la speranza con le borse – lavoro che stiamo costituendo perché possiate avere delle opportunità. Sollecito gli imprenditori ad offrire la loro disponibilità a fare propria quest’opera di liberazione duratura, che permette di iniziare una vita nuova, quella del lavoro.
“Gravidanze troppo giovani”
C’è un’altra condizione per cui è urgente organizzare la speranza, con un cambio di mentalità nelle famiglie: quella di tante mamme che iniziano una gravidanza troppo giovani, a quattordici o quindici anni. I loro compagni non sempre sono nelle condizioni di sposarle: dopo qualche anno ognuno prende la sua strada, con altre relazioni.
Care giovani mamme, avete un merito: non aver messo fine alla vita dei vostri piccoli con l’aborto. Ora prendetevi cura di essi, costruitevi un futuro sicuro, fate sì che i vostri figli siano più responsabili di voi.
Voi ragazzi sappiate attendere per accogliere il dono della vita nascente, di un fidanzato, di uno sposo; a causa di queste precoci gravidanze per voi la scuola finisce molto presto, e vi precludete l’accesso a titoli di studio che vi renderebbero più indipendenti. Un genitore che lascia che la propria figlia vada incontro a questo futuro o la spinge a questo per togliersi una bocca da sfamare, la condanna ad una povertà educativa che si perpetua di generazione in generazione.
Appello ai genitori
Cari genitori, abbiate cura dell’educazione morale dei vostri figli, non lasciateli in balia della leggerezza della loro età: dei sani “no”, ripagano; un’attenzione maggiore ai loro percorsi di studio fin da piccoli, al modo come vivono, deve essere l’investimento da fare sul loro futuro.
E voi ragazze e ragazzi, non compromettete il vostro domani con irresponsabilità, perché vi troverete ad affrontare difficoltà più grandi di voi. Miei cari sacerdoti, anche l’educazione cristiana deve fare la sua parte! Nelle nostre parrocchie non possiamo limitarci alla catechesi e non creare altre opportunità educative.
Cari ragazzi, aspirate ad una vita bella e più completa: nei vostri occhi deve risplendere la stessa luce pura di sant’Agata.
San Cristoforo
L’ultima parola su questo giubileo di liberazione è per ogni cittadino e in particolare per voi, cari uomini e donne delle istituzioni. Circa un mese fa abbiamo tutti accolto, con soddisfazione, la notizia del provvedimento governativo per il quartiere San Cristoforo e sono lieto che tante associazioni e movimenti siano stati coinvolti con proposte precedute da uno studio del territorio.
Sant’Agata benedica questo progetto che certamente sarà portato a termine egregiamente da chi è stato chiamato a coordinarlo; ma permettete che il vostro pastore dica una parola.
Abbiate una prospettiva lungimirante, perché in alcune zone di Catania non servono iniziative sporadiche o che abbiano il sapore della discontinuità, ma soluzioni durature che cambiano il volto del quartiere. Cari catanesi, sappiate coltivare la speranza come una virtù politica che, come diceva il cardinal Carlo Maria Martini, “è rimedio alla decadenza morale e sociale, è coraggio di opporsi al degrado e di non ritenerlo inevitabile”.
Ancora la speranza
La parola speranza pare che derivi da pes, che in latino significa «piede» e quindi ci spinge a camminare insieme, a tirare il cordone di sant’Agata, facendo progredire tutti, soprattutto coloro che sono indietro. Non aspettiamo solo che camminino gli altri, ma muoviamoci insieme: quest’Eucarestia che celebriamo in un’aurora che promette speranza è garanzia e forza per camminare come popolo che viene tenuto insieme dal Signore Gesù, con la sua santa martire Agata.
Quando ci viene la tentazione di fermarvi, invochiamo: “Sant’Agata, testimone credibile di speranza, prendici per mano e aiutaci a camminare, mai da soli, ma da fratelli e sorelle in Cristo, e in compagnia di tutte le persone di buona volontà, senza lasciare nessuno indietro!”.