"Spero in uno Stato Islamico" |Gli appelli alla guerra santa partiti da Palermo - Live Sicilia

“Spero in uno Stato Islamico” |Gli appelli alla guerra santa partiti da Palermo

I pm presenteranno appello contro la decisione del Gip che non ha convalidato il fermo disponendo solo l'obbligo di dimora per la ricercatrice Khadiga Shabbi. E dalle indagini emerge una spaccatura tra i libici che vivono in Sicilia. L'anatema su Facebook poco prima di un attentato a Tripoli. L'autodifesa: "Non ho niente contro i cristiani" (VIDEO) Nella foto l'intervento degli agenti della Digos nella casa della donna

PALERMO- La propaganda viaggiava in rete. Le pagine Facebook di Khadiga Shabbi erano zeppe di appelli alla guerra santa. Tanto basta per fare scattare il reato di istigazione a commettere reati con finalità terroristiche. Ma sulla ricercatrice universitaria in Economia i pubblici ministeri di Palermo sono certi di avere raccolto molto di più. A cominciare dai contatti con chi la guerra anti cristiana la combatte con la morte e il terrore.

Nel corso dell’interrogatorio di garanzia la donna ha ammesso pure di avere fatto tutto ciò che le viene contestato. Non se ne pente perché, a suo dire, non avrebbe inneggiato all’azione di un gruppo di terroristi, ma dei ”rivoluzionari islamici”. Così li definisce.

Pur condividendo l’impianto accusatorio il Giudice per le indagini preliminari non ha convalidato il fermo e ha respinto la richiesta di arresto. Ha imposto alla donna il solo obbligo di dimora a Palermo e il divieto di allontanarsi da casa dalle 22 alle 7. Le condotte della ricercatrice vengono classificate alla voce ”prese di posizione” pubbliche, dettate anche dalla morte in Libia di un parente che, però, secondo i pm, militava nelle file dei terroristi. Il suo operato viene definito dal giudice “slegato da contributi fattivi ad alcun gruppo terroristico”.

E nella scelta di rimandarla a casa hanno pesato anche il fatto che la donna sia incensurata e il suo “pieno inserimento nel tessuto civile” in virtù del suo impegno universitario. Alla fine, secondo il Gip, non c’è né pericolo di fuga, né rischio di inquinamento probatorio. Regge solo la possibile reiterazione del reato, da qui il “morbido” obbligo di dimora. Nel Palazzo di giustizia, però, si consuma lo scontro fra i pubblici ministeri (il capo Lo Voi, l’aggiunto Agueci e i sostituti Ferrara e Ravaglioli) e il giudice con i primi che parlano di “misura inadeguata contro cui presenteranno subito appello.

Erano e sono certi di avere raccolto le prove di qualcosa che va oltre la già grave propaganda jihadista. Tappa fondamentale della loro ricostruzione è il mese di novembre 2014, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha inserito il gruppo jihadista libico “Ansar al Sharia” nella lista nera del terrorismo per via dei suoi legami con Al Qaeda. Inizialmente artefice della rivoluzione araba del 17 febbraio 2011 e della caduta del regime di Gheddafi, il gruppo ha poi proclamato un califfato intorno alla città di Derna e si è alleato con con l’Is (lo Stato Islamico). Oggi ha incorporato i combattenti delle brigate “Abu Obayda bin al-Jarah”, “Malik” e il “gruppo dei martiri del 17 Febbraio”. Nel settembre 2012 il gruppo è uscito allo scoperto organizzando l’attentato contro il consolato americano di Bengasi che costò la vita all’ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens. Il quartier generale di Ansar al-Sharia si trova nella zona di Quwarshah, a Bengasi, ed è attualmente una delle principali aree geografiche sotto l’attacco delle forze del generale Haftar, capo dell’esercito regolare libico. La ricerca di nuove alleanze ha portato al patto di ferro siglato con Wissam Bin Hamid, responsabile della milizia islamista “Libia Shield One”.

Dalla Libia a Palermo, dove nel gennaio 2015 la Digos mette gli occhi sulla ricercatrice libica. È iscritta presso l’Università degli Studi, vincitrice del concorso di dottorato di ricerca in Scienze economiche, aziendali e statistiche della facoltà di Economia e commercio. Il dottorato finirà nel 2017. Nel contempo la ricercatrice incassa una borsa di studio mensile di poco inferiore ai duemila euro, pagata dall’ambasciata libica a Roma. I poliziotti scoprono i suoi contatti, tramite i social network, con un nipote. Si tratta di Al Shabbi Abdelrazeq Fathi, miliziano del “fronte islamico” che combatte il governo libico e risulterebbe legato ad Ansar al-Sharia. Le chiede istruzioni per raggiungere l’Italia assieme ad un compagno, braccati entrambi dall’esercito regolare. La sorella le suggerisce di avviare la pratica presso l’ambasciata italiana in Tunisia. Lei provvederà ad iscriverlo in una scuola di italiano per stranieri. Condizione necessaria per entrare nel nostro paese. Resteranno solo progetti, visto che il nipote morirà sotto le bombe lanciate su Bengasi dall’esercito regolare libico. Da quel momento per la donna il nipote sarà un “martire”.

All’epoca della Jihad 2.0 è il suo indirizzo web (www.facebook.com/kadija.shabbi”) a finire sotto osservazione. È sul social network che Kadigha ha fatto circolare foto, video e appelli a partecipare alla guerra santa. In coincidenza con l’attentato di Parigi contro la redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015 scriveva su un nuovo profilo Facebook la frase: “questi sono i quattro disegnatori del giornale charlie hebdo, quelli che hanno fatto la satira del profeta. la libertà della matita non permette di offendere”. La Shabbi cercava di tenersi aggiornata su quanto accade in Europa e in Libia dove il nipote era particolarmente attivo. Le foto lo ritraevano armato fino ai denti con alle spalle una bandiera e la scritta: “Non c’è Dio all’infuori di Dio e Mohammed è il suo profeta”. Un vessillo riconducibile al simbolo delle milizie radicali dello Stato Islamico e delle sue derivazioni africane. Anche le conversazioni telematiche della donna finiscono ai raggi X. “Quella stronza di Najat le auguro la morte per strada”, diceva ad una connazionale che aveva postato un commento negativo nella pagina del terrorista Wissam Ben Hamid. Secondo i pm, la guerra in Libia ha finito per creare la spaccatura fra chi vive a Palermo. Da una parte i libici legati alle milizie islamiche e dall’altra quelli che appoggiano il governo di Tobruk, riconosciuto dalla Comunità internazionale. Khadiga sarebbe passato alla maniere forti. È lei stessa a ricordare ad una amica di avere incontrato la connazionale: “Io ho messo le mie mani sulle sue braccia e ho detto senti io sono venuta per parlarti perché quello che hai fatto mi ha fatto arrabbiare, lei mi ha detto per favore io non voglio parlare con te. Stava per uscire, ma io ho detto a lei ma ti pare che sono venuta per parlare con te… io sono venuta per minacciarti hai capito minacciarti se parli ancora di questi uomini… lei si è spaventata e tremava dalla paura”.

Il 28 gennaio 2015 un commando dell’Isis attaccò l’Hotel Corintihias di Tripoli, uccidendo più di 30 persone. Ventiquattr’ore prima dall’attentato la Shabbi pubblicava un commento sulla sua pagina: “Presto la maledizione del sangue dei giovani libici arriverà a voi. E da tutti e due i lati brucerà a voi il pianto di tutte le madri e bambini affonderete nel fango di quello che avete combinato e con la vostra salute pagherete i costi di tutte le rapine che avete fatto. Vi soffochi la speranza dei giovani d’avere un buon futuro… “. Ed ancora: “A chi dice che i giovani di Benghasi sono dell’Isis io rispondo e dico è vero che loro sono giovani religiosi e molto a favore alla costituzione dello Stato Islamico. Anche io stessa spero con tutto il mio cuore alla creazione dello Stato Islamico e credetemi l’Isis può essere un vero Stato Islamico e i ragazzi e gli uomini di Benghasi sono a suo favore, ma quelli che conosciamo bene impossibile dire che siano dell’Isis”.

 

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