Storia del pm Nino Di Matteo | Un eroe nella città indifferente

Storia del pm Nino Di Matteo | Un eroe nella città indifferente

Da una cena in pizzeria all'angoscia di ogni giorno. Il giudice più blindato d'Italia, gli scomodi compagni di viaggio e Palermo rimasta indifferente

Caro dottore Nino Di Matteo,

L’altra sera l’abbiamo intravista in pizzeria, finalmente sereno, come un assediato che è riuscito a ritagliarsi nella stoffa del suo dovere un lembo di libertà. Era con la sua famiglia e con la scorta, trattata affettuosamente; ed è una rarità che le fa onore. Poi c’è stato un tonfo, qualcosa, un po’ di movimento intorno al suo tavolo: niente di grave. Il suo sguardo ha raccontato l’allarme che costantemente la imprigiona. Dalla serenità è saltato fuori un guizzo: il segno di quanto pesino l’alternanza di paura e coraggio nell’animo di una persona perbene.

Ed è una paura, purtroppo, necessaria. Il pericolo va preso sul serio, perché tocca un giudice alle prese con incandescenti filoni di indagini, come tutto ciò che riguarda Cosa nostra. Lo prende sul serio il Csm che – a conoscenza della minaccia – sta riconsiderando l’ipotesi di un suo trasferimento e le ha chiesto di sciogliere la riserva.

Lei, oltretutto, avrebbe già avuto la possibilità di congedarsi dalla scena, come il suo ex collega Antonio Ingroia che – è scritto nelle cose, per carità, senza alcuna malizia – ha abbandonato il groviglio di un complesso ‘mostro giudiziario’, quello, notissimo, della Trattativa, che affonda il bisturi in vicende più a portata della storia. Lei avrebbe potuto cercare la scorciatoia in una candidatura o in un posticino soltanto un po’ clientelare: entrambi le sarebbero stati concessi. Ed è rimasto a presidio del suo operato, in trincea.

Resta, però, una domanda scomoda, dottore. Perché Palermo non la sostiene con una mobilitazione straordinaria? Sì, c’è qualche striscione sparso, qualche adesione gruppettara, qualche minoranza di partigiani di una vagheggiata Costituzione celeste che si inginocchia quotidianamente davanti alla sua ipotetica immaginetta. Invece, la maggioranza è altrove. La sintesi del distacco è data da un assordante e ben percettibile silenzio, dall’assenza di manifestazioni e prese di posizione che non coinvolgano i consueti quattro gatti e i soliti libelli di orientamento complottista. Siamo, cioè, molto distanti dalla reazione unanime che il pericoloso frangente consiglierebbe. Allora, perché?

Una risposta immediata sta nel rapporto controverso che questa città nutre con i suoi giudici più esposti. Li spernacchia in vita e li adula in morte, senza mezze stagioni. Non sa praticare una critica motivata, né un consenso cauto. Si iscrive al club postumo del martirio. Altrimenti, diserta. Tuttavia, esistono, forse, altre risposte, scomode quanto la domanda. E non sarebbe onesto tacerle.

Il punto è che lei rappresenta – suo malgrado – il santino ideologico dell’antimafia più estrema, che celebra la mistica della condanna preventiva e – allo stesso tempo – abbraccia Massimo Ciancimino in via D’Amelio. Fu Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, a compiere il noto gesto di riappacificazione, con tanto di foto, affinché quell’attimo fuggente non andasse perduto. 

Lei, per costoro, ha la stessa funzione del profilo di Che Guevara sulle magliette di una stinta rivoluzione. Infatti, viene esposto, di continuo, come la divinità suprema e privata, l’icona votiva di una minoranza cresciuta negli scantinati della cultura del sospetto, che vorrebbe inchiodare presidenti galantuomini, alti ufficiali – e perfino Dio, se si rifiutasse di rispondere – in omaggio alla sua sete di giustizia e di giustizialismo. Quanti saranno rimasti sbigottiti per l’accostamento improprio tra le carte necessariamente dubbiose di un processo – specialmente quello, delicatissimo, che si sta celebrando – e i fogli scarlatti di chi grida al complotto? Quanti si saranno ritratti da un moto di sacrosanta solidarietà, per via dei suoi straripanti compagni di viaggio?

Ancora: lei ha recentemente partecipato alla ‘Notte per la Costituzione’ sulla celebre riforma, dichiarando – a quanto riportato dalle cronache -: “Sono passati quasi quarant’anni, questo per dirvi che l’attacco alla Costituzione comincia molto prima del governo Renzi. Dopo Licio Gelli analoghi progetti sostanzialmente volti a favorire sempre l’esecutivo a scapito del legislativo e del giudiziario via via sono stati portati avanti con fortune alterne mai portati a termine, da Cossiga, dal Governo Craxi e ultimamente da un Governo Berlusconi con una reazione che in quel caso fece gridare a tutti che dovevamo difendere la Costituzione più bella del mondo. (..) Io come magistrato ho giurato fedeltà alla Costituzione non ai governi”.

A prescindere da alcune curiosità marginali – perché un governo che governa e un referendum sancito in virtù delle regole della nostra Carta farebbero, addirittura, gridare all’attentato? – c’è la questione principale: è opportuno che un magistrato, vocato alla sobrietà, entri nel dibattito pubblico con affermazioni talmente perentorie? Giovanni Falcone o Paolo Borsellino si sarebbero mai sognati di prestare volto e favella a uno schieramento, come il variegato mondo che sostiene la trincea del No, o il granitico comitato che presidia la roccaforte del Sì?

Erano – ‘Giovanni e Paolo’, come li chiamano oggi coloro che li detestavano – figure ascrivibili a quel tipo di magistrato-eroe che si impegna– se necessario fino all’estremo sacrificio – lontanissimo, nella sostanza e nella parvenza, da ogni claque, da ogni conventicola. All’integrità di quelle vite e di quelle storie si contrappone l’immagine opaca dei paladini con la Durlindana che sfruttano il consenso teatrale di inchieste senza capo né coda, per cavalcarle politicamente e approdare, magari, nel pascolo minore di incarichi raccattati qua e là.

Lei, dottore, non appartiene alla seconda specie. Lei fa ciò che crede perché crede in ciò che fa ed è disposto a pagare un costo sulla sua pelle, nei suoi affetti più cari, nella sua stessa vita. Ma sono tanti coloro che si sentirebbero ulteriormente rassicurati, avvertendo nel giudice appena un giudice, disposto a difendere solo le ragioni del diritto.

Ecco alcune tra le possibili risposte scomode a domande scomode. Ci rifletta, se lo riterrà opportuno, dottore Di Matteo. Lei è un magistrato serio, coraggioso, onesto e incorruttibile. Non si faccia tirare per la toga da chi pensa che la giustizia sia un cero acceso sull’altare del fanatismo e della vanità.

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