PALERMO – Licenziata per il cognome che porta. Perché Maria Concetta è una Riina. È nipote di Totò e figlia di Gaetano, il fratello del capo dei capi, pure lui condannato per mafia. Essere una Riina rappresenta una “giusta causa” di licenziamento.
Maria Concetta ha 39 anni di cui dieci trascorsi alle dipendenze del titolare di una concessionaria di macchine a Marsala. Fa, o meglio, faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai indagata, mai sfiorata da ombre”, ricorda con amarezza il suo legale, l’avvocato Giuseppe La Barbera, seppure sia quantomeno ipotizzabile che ai Riina, e chissà fino a quale grado di parentela, gli investigatori abbiano fatto uno screening tanto necessario e doveroso quanto profondo.
Ora accade che la prefettura di Trapani emetta un’interdittiva nei confronti del suo datore di lavoro che è anche legale rappresentante di una società immobiliare. “La inquietante presenza nell’azienda della citata signora Riina – si legge nel documento della Prefettura – fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”.
Secondo l’interpretazione prefettizia, dunque, la presenza di Maria Concetta Riina in azienda rientra nei casi previsti dal codice antimafia che, a partire dal 2011, ha voluto con la “informazione antimafia interdittiva” creare un argine contro le infiltrazioni della criminalità organizzata. Il prefetto Leopoldo Falco ha fatto suo “il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione… tanto è vero che assumono rilievo per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali”.
Risultato: con la Riina in organico niente “liberatoria antimafia”. E senza liberatoria si resta tagliati fuori dal mercato. A mali estremi rimedi estremi: il titolare ha dovuto mandare a casa Maria Concetta Riina. Nella lettera spedita alla sua ormai ex dipendente scrive che “si vede costretto a licenziarla, nonostante abbia apprezzato nel tempo le sue doti e correttezza professionale”. Insomma, Maria Concetta Riina è stata una brava lavoratrice, ma bisogna allontanare ogni sospetto di mafiosità.
Nel frattempo, però, il titolare ha impugnato l’interdittiva davanti al Tar. Senza esserci alcuna sudditanza psicologica verso un cognome pesante o chissà quale logica di connivenza, tagliano corto i legali. “Siamo di fronte ad un problema sociale – spiega l’avvocato Stefano Pellegrino che assiste la società assieme a Giuseppe Bilello e Daniela Ferrari – perché sociale è il rischio che deriva dall’esasperazione del concetto di antimafia. Nessuna voglia di aggirare le regole, nessuna giustificazione ai comportamenti illeciti che devono essere perseguiti. L’economia in Sicilia rischia, però, di essere messa in ginocchio da questo rigore eccessivo”.
Chi usa parole dure è l’avvocato La Barbera che si dice “sconvolto dalla violenza con cui si applicano le norme dello Stato. Le leggi, volute come scudo di difesa, diventano armi letali. La signora è stata licenziata e una famiglia privata dell’unica fonte di reddito per la sola colpa di chiamarsi Riina. Prendiamo atto che in Italia esiste, oltre all’aggravante mafiosa, anche quella per il cognome che si porta”. Quindi l’affondo: “Se lo Stato toglie alla signora Riina la possibilità di lavorare allora le garantisca un sostentamento economico”.