PALERMO- La minaccia dei mafiosi contro lo Stato ci fu. Anche se solo in forma tentata. Non ci fu la Trattativa, nonostante la narrazione imperante in questi anni l’abbia rappresentata come un fatto certo. Per una sfilza di magistrati è stato il postulato su cui imbastire una lunga stagione giudiziaria, celebrata nelle aule di giustizia e nei tribunali paralleli dei salotti televisivi.
La Cassazione con la formula “per non aver commesso il fatto” azzera l’impianto accusatorio e con esso i sospetti che da anni gli ufficiali dei carabinieri si portano dietro come un macigno.
Pietro Riggio
Un verdetto che non sorprende, considerata la traballante impalcatura dell’accusa. Troppo spesso sorretta dal racconto di collaboratori di giustizia e dichiaranti che hanno condotto per mano i pubblici ministeri sulle montagne russe. L’ultimo a battere un colpo fu Pietro Riggio. Tutt’altro che di primo pelo, il pentito nato a Resuttano, in provincia di Caltanissetta, è piuttosto navigato. Faceva l’agente di polizia penitenziaria, poi l’hanno arrestato per mafia ed estorsione. Collaborava dal 2009, ma un decennio dopo dalla palude dei suoi ricordi tirò fuori la storia di un misterioso ex poliziotto che avrebbe imbottito di tritolo l’autostrada per fare saltare in aria, a Capaci, il giudice Giovanni Falcone.
Perché parlarne dopo tanti anni? Per “paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia”. Cos’era cambiato? “E’ come se questo potere occulto sia traballato, sia venuto meno e quindi è un momento che la verità deve venire per forza a galla, il fatto principale è stato la sentenza di Palermo. Per me era impensabile. Io quando ho sentito la sentenza non ci credevo”.
Erano i giorni del verdetto di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia chiuso con le condanne. Il pm di Firenze che lo interrogava si accorse della confusione: “Riggio, però, quando lei scrive alla Procura di Firenze, la sentenza di Palermo ancora non c’è stata”. A Riggio toccò correggere il tiro: “Io l’avevo già maturata l’idea di parlare, di riferire, però dopo quello che è successo ancor di più ho preso coscienza che questa cosa doveva avvenire”.
Massimo Ciancimino
Prima di Riggio sul palcoscenico del processo erano saliti Massimo Ciancimino e Giovanni Brusca. La credibilità del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo è stata picconata da tempo. Tortuoso e a rate il percorso dei suoi ricordi. Il momento clou avvenne nel 2010 quando consegnò un documento che diceva di avere scritto sotto dettatura del padre negli anni Novanta. Era una lista di nomi, gente a disposizione di don Vito, tra cui l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. L’esame della polizia scientifica dimostrò che era un pacchiano ritocco con Photoshop.
Giovanni Brusca
E poi c’è Giovanni Brusca, il boia di san Giuseppe Jato, i cui vuoti di memoria e i ricordi improvvisi sono da sempre un tratto distintivo della sua collaborazione. A distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione il boia di San Giuseppe Jato fece i nomi degli uomini chiave della stagione della Trattativa, Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Perché attese così tanto tempo? Per paura, disse lui.
Nel processo al generale Mario Mori, nel quale l’ufficiale fu assolto per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, Brusca fu ondivago sulla storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avanzarono allo Stato per fermare le bombe e che anni dopo sarebbe diventato il cuore del processo sulla Trattativa. All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Pochi mesi dopo Brusca scrisse una lettera al Tribunale. Chiese di essere riconvocato perché si era ricordato di alcune cose importanti. Ad esempio il fatto di avere appreso dell’esistenza del papello a cavallo delle stragi, quindi dopo Capaci e prima di via D’Amelio. Che, guarda caso, era il canovaccio della pubblica accusa che vedeva nella Trattativa il motivo dell’accelerazione della strage in cui furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca.
Dichiarazioni ondivaghe
Ci sono stati magistrati che hanno messo nero su bianco il forte sospetto che Brusca avesse voluto compiacere chi lo interrogava. Marina Petruzzella nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione divenuta definitiva), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”.
L’assoluzione dell’ex ministro democristiano era un scoglio insuperabile. Secondo l’accusa era stato, infatti, il politico a chiedere ai carabinieri di avviare la Trattativa con i boss temendo di essere ammazzato. Ed è parlando di Mannino che si è registrata la più clamorosa delle acrobazie di Brusca. Totò Riina, così raccontò, voleva ammazzare il politico “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”.
Il caso Mannino
Il primo a sorprendersi per il racconto del pentito era stato il presidente della Corte di assise di appello, Angelo Pellino: “In particolare nel processo Mannino, quando le è stato chiesto se fosse a conoscenza di interventi specifici, di iniziative, di favori fatti dall’onorevole Mannino a vantaggio di Cosa Nostra, lei ha detto che non le risultava nulla di specifico… del nome di Mannino assolutamente non c’è traccia in questo racconto”.
Ed ancora: “Lei è certo che di questo presunto tentativo di interessare Mannino per aggiustare il processo per l’omicidio Basile lei ha saputo all’epoca dei fatti o è frutto di reminiscenze, di conoscenze negli anni successivi?”.
“E’ un frutto di ricordo vecchio, non successivamente suggestionato. Assolutamente no. Non mi sarei mai permesso, non l’ho mai fatto nella mia vita, non lo farò mai – rispose – un mio difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”.
Ed ecco che di fronte a simili atteggiamenti processuali non può sorprendere il fatto che la Cassazione oggi abbia demolito il processo nonostante le certezze a buon mercato dei colpevolisti che si sono anche scagliati contro chi, ad esempio il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupoi, in questi anni hanno offerto un punto di vista diverso.