Tutti a Messa col Papa | E Palermo si scopre bella - Live Sicilia

Tutti a Messa col Papa | E Palermo si scopre bella

La celebrazione del Foro Italico
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C’è un uomo che cammina sotto il sole di Palermo, sotto il peso dolce di una speranza tremenda. La speranza urgente degli altri. E’ un uomo minuscolo, potente, forte, nudo, fragile e solo. E non c’è contraddizione. Intorno, i fiati del suo gregge lo sommergono di ansia e di attesa. Dal palchetto della stampa, lo cerchi con lo sguardo: “Dov’è Benedetto XVI?”. Lo segui con la marea della folla, con le mani che si alzano, con gli applausi che si fanno più intensi e lo accompagnano come una risacca. Eccolo, Papa Ratzinger, da lontano puntino bianco, da vicino faccia gigante scrutata in ogni lineamento dalle telecamere. Ecco colui che disse di essere un umile servo nella vigna del Signore, dopo il grande Papa “Ciovanni Paolo”. Benedetto XVI è un vecchio marinaio, con un mezzo sorriso da bambino.

Gli hanno eretto un grande palco sulla riva del mare, con una sedia antica e preziosa. Un sacerdote scorbutico al microfono centellina gli ultimi accorgimenti: “Dobbiamo cantare insieme, per piacere sedetevi, nessuno può restare in piedi nel corridoio. Questo non è uno spettacolo, è una celebrazione eucaristica da condividere”. Col pass rosso o blu si entra all’interno del cerchio magico che dà in premio un posto con vista sul Servo del Signore. Ci sono i politici con moglie e prole al seguito. A ridosso una calca pazzesca. Gli ultimi non saranno i primi nella vigna del Foro Italico. La premessa è tutta nei saluti di sindaco e arcivescovo. Perfino a Diego Cammarata tocca un applauso. Praticamente un miracolo.

Il Papa celebra con sobrietà e austerità, senza impeto. Ogni gesto è misurato, studiato, corrisponde a una forma calcolata. Niente di estemporaneo, nemmeno la calcolatissima spettacolarizzazione di Giovanni Paolo II. Benedetto Decimosesto è un ragioniere dell’infinito, la sua dignità risiede nello svolgimento del compito. Gli occhi guizzano di vivezza adolescenziale. Se bacia un bambino all’offertorio, mostra pudore della sua tenerezza privata di potenziale nonno. E quando si inerpica sul latino del messale si capisce che non gli importa emozionare. Vuole essere compreso. Così, la scelta del latino che apparirebbe, a tutta prima, un dogma dell’incomprensione. Invece, l’esca di una lingua musicale e appena appena intellegibile tira dietro l’attenzione delle persone. Aguzzi l’orecchio per carpire, per ascoltare. Ti sforzi di sapere, non basta più ripetere i versi della liturgia, biascicarli come “L’Ermengarda” di Manzoni o la canzonetta di Sanremo, con parole che rimbalzano nella consuetudine, smarrendo il loro significato.

L’omelia è un piccolo capolavoro di dottrina. Dimentichiamo la roboante e splendida orazione di Giovanni Paolo II ad Agrigento. Non decolla sulla scala di un tonante “Convertitevi”. L’accenno alla criminalità organizzata è soffice, collaterale, come l’elogio caldo che sfiora don Puglisi. Siamo su un altro piano, spirituale e singolo, più che civile e collettivo, a lunga e riflessiva gittata, più che immediato. E’ un sentiero sommesso e sapiente che cerca l’intelletto del cuore, per regalare un sentimento duraturo. Dice il Santo Padre: “Popolo di Sicilia, guarda con speranza al tuo futuro. Fa’ emergere in tutta la sua luce il bene che vuoi, che cerchi e che hai”. Frasi sussurrate, ma se uno ci si ferma, lenimento per le mani di troppi piagate dai chiodi dell’ingiustizia, annuncio di una speranza bellissima. Non è un grido, è una carezza.

La Messa si diluisce come tutte le Messe siciliane di quasi autunno, in un languore di sole e di piedi stanchi che vogliono tornare a casa, nel refrigerio del pranzo della festa e della partite. Qualcuno canta cose di Chiesa, sulla via del ritorno.I sacerdoti agitano i cappellini gialli e bianchi come ragazzini all’uscita della scuola.  I cittadini e i vigili urbani sono reciprocamente cortesi. Altro miracolo.  Si respira una strana aria di gentilezza e bellezza. Lungo il Cassaro l’ultimo saluto alla Papamobile che va verso il Palazzo arcivescovile per il pranzo. C’è  Benedetto a pochi metri, curvo con i suoi occhi ragazzini e quel sorriso. Eccolo ancora, Benedetto Decimosesto che è il contrario di una canzone di Vecchioni dedicata ad Alessandro Magno “così grande fuori, così piccolo dentro”. Lui, l’uomo che porta il peso della speranza sua e degli altri, appare minuto fuori. Ma dentro deve essere immenso.


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