Arriva alla chetichella, con l’occhietto luccicante e l’aria finto-indifferente. Tu lo capisci subito. E lui capisce che hai capito. Potrebbe essere il co-passeggero di un rapido viaggio in ascensore, il vicino di libreria, il commensale al bar, il detentore delle terga adiacenti del seggiolino allo stadio… La prende alla lontana. Chiacchiera della pittura dei Macchiaiuoli, della Spal, degli arresti in Uganda, dell’ultimo libriccino sulle turbe sessuali dello scarabeo andino. E’ un trucco, perché infine piazza la botta: “Sa, sono candidato. Lei è impegnato?”.
Non si sfugge. In ogni pianerottolo c’è qualcuno che è sceso nell’agone per le elezioni di Palermo, o un suo parente, o un suo succedaneo, o un suo concorrente. Scappare è impossibile.
Già, ma perché “si portano”? C’è di tutto. Il droghiere, il nipote dell’avvocato, il medico, l’attore, il filosofo a tempo perso. Ombre trasversali, negli angoli, sul cammino degli uomini indaffarati. Più hai fretta, più non ti mollano. Ci sono vecchi compagni delle elementari. Vi stavate pure sul gozzo per questioni calcistiche, perché lui era juventino. Vi siete magari menati, prima che menasse la maestra. Eccolo lì, trent’anni dopo. Eccolo, mentre piomba nelle tue convulsioni quotidiane, con il sorriso di chi aspettava da secoli la carità di un ricongiungimento familiare. Eccolo, mentre si catapulta nelle braccia di chicchessia con rincorse di ottocento metri, stile cartoon giapponese. Lo osservi. All’inizio ti commuovi. Poi, realizzi. Il compagno delle elementari non è mutato. E’ lo stesso (biiip) di prima. “Si porta”. E gli stai ancora antipatico, però finge. Ps. Tifa per la Juve.
Lo vogliamo dire il lato scabroso della faccenda? “Si portano” per il reddito. Per trovare qualcosa, nell’era della crisi. Per arrotondare, pure coloro che un mestieruccio ce l’hanno. I padri di famiglia, i giovani, gli imberbi, gli anziani pensionati. E’ una corsa al bronzo, un concorso pubblico. E non è che manchino idealità o soprassalti, né il bisogno di riscatto morale, nell’ora più buia di Palermo. Sarebbe ingiusto negarlo. Ma dai discorsi in giro ci pare di avere chiaro il quadro: la molla che spinge una fiumana di persone finora lontane dalla politica a impegnarsi col petto in fuori confina con una questione, assai pratica, di pentole da sistemare a tavola. Ed è uno strano spettacolo. I rivoluzionari, di mattina, urlano contro il Palazzo e la sua casta. Di pomeriggio fanno la fila, buoni buoni, per l’ultima scodella di minestra. Lo vedi subito. Rivelano nelle pupille l’identico sogno fiammeggiante, accompagnato da un brontolio di stomaco. Un posto (in) Comune.