“Una carusa tosta” | di Goliarda Sapienza - Live Sicilia

“Una carusa tosta” | di Goliarda Sapienza

Continua la nostra rilettura delle opere degli scrittori siciliani. Oggi l'opera "L'arte della gioia".

INCHIOSTRO DI SICILIA
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“Scrivere significa anche rubare il tempo alla felicità” – così riteneva Goliarda, carusa tosta, che forse la felicità, nel senso comunemente inteso, se la fece rubare tutta dalle parole.

Tutta in quella grafia che era un elettrocardiogramma. Una scrittura cardiaca come la definisce Angelo Pellegrino a cui toccò pubblicare a sue spese, dopo decenni di rifiuti editoriali, il romanzo.

Figlia di anarchici, nasce a Catania a San Berillo. Nella Civita riceve la prima educazione sentimentale dalla madre, Maria Giudici, prima donna a capo di una Camera di lavoro, personalità di grande rilievo nella sinistra del tempo.

Di vocazione libertaria, dunque, Goliarda si oppone ad ogni organizzazione, anche intellettuale, esprimendo perplessità sul movimento femminista degli anni settanta: troppo audace e troppo fuori schema, educata al rigore dell’ateismo, concepisce l’arte come sostituzione di Dio.

Romana di formazione presso l’Accademia Silvio D’amico, ex moglie del regista cinematografico Citto Maselli, sceneggiatrice, attrice di Visconti, tre anni di analisi e due tentativi di suicidio.

Verso la fine degli anni sessanta sperimenta anche il carcere per un furto di gioielli ad un’amica, lasciando volutamente delle tracce. La scrittrice, che aveva quasi conquistato il premio Strega con il suo libro ‘Lettera aperta’ finisce a Rebibbia, componendo ‘L’università di Rebibbia’ in cui rinnova il linguaggio che riteneva corrotto dai valori borghesi.

Finisce i suoi giorni a Gaeta, ultima patria della sua scrittura, nei cui bar amava raccogliere le storie degli ultimi. Trovata cadavere dopo tre giorni, viene sepolta per terra senza alcun onore. Solo nel 2007 il Comune le dedicherà una sepoltura degna dedicandole una lapide.

Insomma, una biografia drammatica che lascia alla letteratura siciliana uno dei romanzi più complessi e urticanti che troverà battesimo letterario in Francia.

Sembra che in Sicilia, difficilmente, uno scrittore desideri raccontare il presente come se trovasse inenarrabile la postura della realtà quale transito di doglie fra passato e futuro.

Nei dieci anni di scrittura dell’opera, inevitabilmente, la mano dell’artista e della sua creatura diventano unica carne.

Goliarda è Modesta e Modesta è Goliarda, non nella consueta ricerca di autobiografia, ma nell’intreccio d’anima fra creatore e creato che consuma la possibilità della pagina.

Scriveva ogni mattina Goliarda e, al pomeriggio, leggeva all’amica Pilù, anch’ella rapita da questa donna immaginaria che, intanto, portava l’artista ad una povertà assoluta fino al licenziamento della domestica fidata, da troppi anni non pagata.

Nell’arte della gioia non c’è alcuna gioia ma una smisurata esistenza. Modesta è un gigante: in verticalità contiene ogni corruzione, anche quella feroce delle fiabe.

Senza rimorso uccide e sa uccidere il femminile, la madre in ogni sua forma, a cui depreda un modello per il cui possesso è disposta a compiere premeditati assassini.

Vittima da parte del padre di un abuso infantile ne eredita una violenza sottile che non perdona nessuno. Predatrice e predata, da adulta, incontra carnalmente uomini e donne con pari trasporto

Modesta è ampia, orizzontale, appassionata burattinaia di una corte di creature che raggiungono il loro destino, attraversandola. Spaventosamente fertile, innocente come certe serpi che, per fame, raggiungono luoghi di eretiche ragioni del cuore è una principessa plebea, in genesi continua di se stessa, capace di rinascere nell’incontro e sparire senza avvertimento.

Anche lei è ‘matri di tutti e nun havi figli’- come disse Buttitta di Goliarda, seppure nell’opera dia alla luce un figlio che ama ma che non vuole bene.

Promette amore Modesta ma sa che l’effimero delle passioni non potrà oscurare il suo straripante desiderio d’esistere. Appare, dunque, nella solitudine affollata del femminile, travestita dagli abiti, nelle stanze in cui il carnevale narrato, la festa del quotidiano potrebbe improvvisamente sparire lasciando immutata la storia.

Inganna nella forma il romanzo che sembra essere un’estenuante saga familiare. In verità, vertiginosamente, l’umanità dell’isola tutta assume spessore attraverso lo strumento di un’abile seduzione manipolatrice a cui Modesta offre dedizione assoluta con cambi continui di scena.

Non c’è profondità di genesi nelle pagine di Goliarda piuttosto una carnalità solitaria che porta a morte, uno per uno, i personaggi. Manca l’erotismo e, dunque, ogni possibilità di comunicazione capace di compiere il fluttuare di una metamorfosi. C’è l’isola nella sua greve, immobile capacità di depredare l’amore così come nelle pagine di Silvana Grasso o in certe pagine di Andrea Camilleri in cui l’incontro è presagio di sventura finale.

C’è finzione piuttosto come su uno smisurato palcoscenico, una trappola in cui gli attori si misurano in una pièce non scritta per loro ma per un ingombrante fantasma di femminilità in un solo monologo.

La macchina da presa con cui la scrittrice sembra operare punta la sua lente focale solo su Modesta facendone un personaggio ossessivo, capace di conferire al matriarcato siciliano un contemporaneo valore di eresia.

Modesta non ha compagni d’inchiostro degni di tale nome: segue se stessa con virile coscienza e femminile stupore.

Ha forse avuto un solo amore, l’uomo a cui ha dato un figlio. E non per il compimento della maternità bensì, al contrario, perché è l’unico che accogliendola nella sua carne la chiama figghia, lasciandola al lettore con un padre importante e orfana di tutto. Insomma, una carusa tosta, struggente come un arcobaleno solitario.


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