"Una zucchina, papà, il ritardo|Chinnici, così ci siamo salvati" - Live Sicilia

“Una zucchina, papà, il ritardo|Chinnici, così ci siamo salvati”

Il ricordo di Giorgio Trizzino che abitava nel palazzo del magistrato.
LA STRAGE E LA TESTIMONIANZA
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PALERMO– Il consigliere istruttore Rocco Chinnici morì alle otto e qualche minuto del ventinove luglio 1983, ucciso dall’esplosivo della mafia, davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico, a Palermo. Con lui morirono il maresciallo dei carabinieri, Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi. Si salvò Giovanni Paparcuri, l’autista, e da lì riprese la sua coraggiosa vita di testimone della speranza che è rinata, grazie anche al valore di persone come lui.

Quel giorno, il deputato M5S Giorgio Trizzino, medico palermitano, fondatore della Samot, fu un testimone diretto degli eventi. Abitava nello stesso palazzo del magistrato. Questo è il suo racconto.

“Avevo ventisette anni. Ero già medico e lavoravo. Io stavo al secondo piano della scala B. Chinnici era nella scala A. Avevo sempre abitato lì con i miei. Poi, mio padre, era riuscito a comprare due appartamenti, uno regalato a me, l’altro a mio fratello. Stefano, il nostro amico portiere, era una persona deliziosa. Ricordo con affetto lui e sua moglie. Venivano da Gangi, come la famiglia di mia madre. Ero legatissimo a Rocco Chinnici. Mia mamma è morta che avevo appena quattordici anni. Rocco mi incoraggiava sempre, mi ha aiutato all’inizio della mia carriera ed era in splendidi rapporti con papà. Probabilmente, guardava con tenerezza questo ragazzo che era diventato orfano di madre tanto presto. Ecco mi aveva quasi adottato. Mi diceva: ‘Vai avanti’. Erano una famiglia meravigliosa. Rocco Chinnici era un uomo generoso e buono”.

“Quella mattina… Come dimenticare? Alle otto stavamo uscendo per andare finalmente in vacanza. Dovevamo partire per Capo Zafferano. Avevo parcheggiato, la sera prima, davanti al portone, proprio dietro la macchina imbottita e pronta e esplodere. Sono le otto e qualche minuto, sto per scendere. A casa arriva mio padre e ci regala delle zucchine e un po’ di frutta. Poi si reca in balcone, sul retro, dove c’è il mio bambino di pochi mesi. Ritardiamo un po’ e sono gli istanti che ci salvano”.

Improvvisamente accade. Una bomba che deflagra. L’onda d’urto butta giù la porta blindata. Il passeggino con mio figlio sta per volare fuori dal balcone, mio padre lo afferra miracolosamente. Il bambino resta ferito. Una scaglia di vetro gli si conficca in testa. Io agisco. Mi rialzo. Sono un medico. Cerco di fermare l’emorragia con un fazzoletto. Scendo per le scale, su quello che c’è ancora delle scale. E’ un macello. Un cane in lontananza piange, tutto è attutito. Lo riconosco. E’ il cane di Chinnici”.

“Sono con mio figlio in braccio, corro tra le macerie e vedo quello che resta del giudice. Dio mio, finché campo non scorderò mai. Mio figlio è sopravvissuto. Noi siamo sopravvissuti. Ricordo il botto. Ricordo l’odore. I tubi erano saltati. Ricordo le mie ginocchia immerse nell’acqua rosa, mista a sangue. Quando, finalmente, so che mio figlio è fuori pericolo, mi metto in un angolo e piango. Questa era Palermo”.

Anche adesso le lacrime scorrono nella voce di Giorgio Trizzino, mentre parla, come accade ogni volta che racconta quegli eventi. Sono le stesse lacrime di trentasette anni fa.


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