Sono tornato nel nostro campetto. Non è mai stato un campetto: uno scolo di cemento, piuttosto, circondato da cancelli e transenne. Un misero ammattonamento non regolamentare. Un’area immaginata era più piccola dell’altra, perché il terreno si allungava e si restringeva. Da un lato c’era spazio per il calcio d’angolo, dall’altro no. La traversa delle porte non c’era, invece. Dovevi pensarla. E siamo diventati filosofi da marciapiede, pensando una traversa. Per convenzione, si prendevano dei riferimenti che coincidevano grossomodo con le mutande stese dalla signora del primo piano. E nasceva sempre gran contestazione nel caso assiduo di tiri che sfiorassero l’infinito, all’altezza della linea della biancheria. I pali? Due sassi che un portierino arguto poteva spostare col piede, occultamente. Per arrivare in questo relitto dei giochi, noi ragazzini dell’epoca, non abituati ai campi in erba sintetica, eravamo costretti a scavalcare un cancelletto puntuto. L’ordalia degli dei. Cadevi lì dentro, nel Maracanà della fantasia, piegando le ginocchia dopo il salto. E la felicità diventava amica tua. Io ero appena un ragazzino mezzo con le ali e mezzo con le scarpette e i guanti da portiere. Finivo di leggere poesie e di studiare. Piombavo tra le braccia dello “Scipione” – così si chiamava – di nascosto a mio padre, con i versi di Villon a rimescolarmi.
Sono tornato nel nostro campetto. Il cuore mi si è stretto fino al soffocamento. Non c’è più, nemmeno a immaginarlo. Non ci gioca più nessuno. Le grida dei bambini sono state disperse dal vento della proprietà privata. Qualcuno l’ha sbarrato. Almeno prima si rincorreva un pallone. Adesso niente: spazio bianco, come una lavagna da cui siano stati cancellati i versi che ci hanno morso l’anima (“dove le nevi dell’altro anno”). A Palermo piace la contraddizione insanabile. Si accetta l’ineluttabilità di ciò che non serve più. Purché sia mio e non tuo. Palermo ama lo zero che riesce a possedere.
Ho ricamminato verso la macchina, con le spalle, curve, al campetto. E nel petto mi si è gonfiata una maledizione. Lo giuro, non volevo: mi è scappata. Maledetta città. E nemmeno i sogni in bianco e nero, teneri, di vetro soffiato, ci lasci? La domanda è arrivata a palla di cannone alla fine dell’ira. Se siamo questo schifoso grumo di distruzione, vale la pena di salvare Palermo? La concatenazione degli eventi non è logica. Ma, tra visione, sussulto, e il resto, è andata proprio così. Vale la pena di salvare Palermo, o sarebbe meglio rassegnarsi, perché tanto tutto ci appare inutile?
Vale la pena di salvare la Gesip? Vale la pena di salvare gli occhiali del preside Di Fatta che allo Zen, con i suoi professori, combatte una battaglia disperata? Vale la pena di salvare Biagio Conte dalla violenza cieca che ieri l’ha ferito con una pietra e domani vorrà altro sangue, non importa di chi, basta che sia sangue? Vale la pena di salvare piazza Politeama dai neo-visigoti che la sporcano? Vale la pena di salvare un residuo di decenza della politica? Vale la pena di salvare il mare mai così fetido? Vale la pena di salvare la bellezza sconciata che c’è, malgrado noi? Sapendo bene che non ci sarà scampo se cominceremo a dividerci. Palermo è un filo che si tiene intero: vale la pena di salvare tutti o nessuno. Io non vorrei mai salire su un elicottero per osservare sotto di me lo spettacolo neroniano di una città in fiamme.
Mentre risalivo in macchina, ci pensavo e ripensavo. Quando Palermo morirà, si dissolverà anche la nostalgia. Moriranno i fiati di allegria ragazzina che abbiamo regalato allo “Scipione”, trasformando il cemento in pieghe di amore, e che continuano a inseguire una partita invisibile. Morirà di nuovo mio padre che mi scrutava, non visto, da una finestra del settimo piano e perdonava i miei voli imprudenti. Moriranno le parole dei poeti. Moriranno gli ultimi gelsomini. Sarà sepolta per sempre, prima ancora di rinascere, la nostra amica felicità. Morirà il cielo azzurro, protettore degli sguardi, sopra una traversa che non c’era. E noi che faremo e che saremo, se non potremo più alzare gli occhi al cielo, tra la memoria di un pallone che fischia e le mutande della signora del primo piano?