Il capo dei capi, il nuovo Totò Riina, doveva essere Benedetto Capizzi. Pare lo avesse deciso lui stesso, autonomamente. Di necessità virtù, si dice. E lui, un pluriergastolano graziato dai domiciliari, vista la necessità di rimettere in piedi Cosa nostra e la cara vecchia commissione provinciale, aveva pensato di essere l’uomo giusto al posto giusto. Di prendere in mano le redini e guidare boss e picciotti allo sbando verso il nuovo corso. Così, uno alla volta, aveva cominciato a convincere anche i più scettici. C’era riuscito con tutti, con gli Adelfio, col vecchio Gerlando Alberti, perfino il capomandamento di Bagheria, Pinuzzo Scaduto, con tutte le sue riserve (“… noi non possiamo fare commissione perché non siamo nessuno autorizzati… almeno io non sono autorizzato da nessuno…”), perfino lui alla fine aveva approvato le linee sostanziali del progetto. Insomma, Capizzi era riuscito a convincere tutti. Tranne uno: Gaetano Lo Presti, il capo mandamento di Porta Nuova. Lui voleva le cose fatte per bene. Voleva il consenso dei corleonesi, di Riina. “Loro – dice Scaduto a proposito della posizione di Lo Presti, in una riunione del 15 novembre – il discorso di Benedetto non lo vogliono accettare perché lui non è autorizzato… gli abbiamo chiesto chi è che lo autorizza e non ci vuole dire niente e noi che siamo carabinieri (…) a lui chi gliela dà tutta questa responsabilità? Come tu sai nessuno si può prendere in questo minuto… salvo che spunta quello che deve spuntare e lo manda a dire quello che deve mandare a dire e il discorso cambia… Mi hanno nominato Corleone… pure i paesi… Corleone dice lo hanno loro… hanno preso pure i discorsi dello ‘zio’… Lo ‘zio’ quando scriveva diceva le cose di Corleone, io posso dare consigli, ordini non ne posso dare… ‘Benedetto viene e mi viene a fare questi discorsi’… ‘chi lo autorizza a Benedetto?’”.
Segnali di guerra, anche stavolta
Ecco: l’immagine più recente di Cosa nostra, scattata poco meno di un mese e mezzo fa, fotografa un’organizzazione in pieno fermento. Boss e gregari al lavoro per serrare le fila. Riunioni, attentati, arruolamenti. E quella piccola, grande incomprensione – legata alla leadership – che ha rischiato di far scoppiare una nuova guerra (ogni retata che si rispetti ne ha almeno una da raccontare) tra clan. Perché Lo Presti, il più grande detrattore di Capizzi, proprio non ne voleva sentire di fare le cose alla vecchia maniera. Lui voleva restare nel suo orticello, curarsi gli affari, le sue estorsioni, pagare i suoi carcerati. E basta. “Ma io – diceva infatti parlando di Capizzi – già gliel’ho detto a lui… non abbiamo che vederci! (…) a noi altri… non ci pesta nessuno i piedi! Se viene qualcuno (pausa)… e ci fa piacere! … che se non ci fa piacere, arrivederci! Comunque, gli dici, vedi che io ce l’ho il capomandamento (…) noi altri vogliamo stare in santa pace… con… con chiunque!”. In sostanza, Lo Presti temeva che questa ristrutturazione portasse, come del resto stava avvenendo, a un conseguente coinvolgimento di più gente. E che questo, di fatto, abbassasse il profilo criminale degli affiliati: “(…) tre mesi fa – diceva infatti parlando dei pentiti e delle retate che hanno decimato il clan Lo Piccolo – è successo un macello… tre mesi fa! E ora si ricomincia! Ma ancora… con gente che è ancora peggio… perché vedi… tu sai benissimo che quando si mettono ad aumentare i cristiani… vanno sempre a… a scendere (…) siamo arrivati ad un livello… cheee… ci vuole proprio ‘u’ crivu’ (…) per vedere quello che esce… e ancora persistono! (pausa) e ancora persistono!”.
Nonostante gli inviti, Lo Presti continuava a disertare le riunioni con Capizzi: “… ieri – proseguiva parlando con Fabio Manno, Salvatore Milano, Massimo Mulè e Giovanni Lipari durante una riunione tra esponenti di spicco del mandamento – hanno detto ‘può essere che si fa un appuntamento’… io gli ho detto una cosa sola: che senso ha ad andarmi a sedere con dieci persone quando già nove sono d’accordo con lui? Che ci de’… che ci calano la testa! (omissis) non ha nessun senso!”. C’era pure la possibilità che Capizzi mandasse il cognato a fare lavori nel territorio di competenza mafiosa di Porta Nuova. In questo caso, parlando con i suoi Lo Presti non lasciava tanto spazio a interpretazioni: “Perché se io ci annagghiu… il cognato di lui che ha un carruzzune, una cosa qua… io glielo faccio buttare proprio!”.
Il gruppo, che era riuscito a trascinare dalla sua parte boss del calibro di Gianni Nicchi e Francesco Paolo Barone, cercava un modo per lanciare un segnale, per far comprendere a Capizzi che la sua linea, almeno a Porta Nuova, non era ben accetta. Anzi, proprio non poteva passare. Un modo per far arrivare questo messaggio poteva essere attraverso un loro emissario, Filippo Bisconti, al quale era stato affidato il compito di far conoscere il pensiero di Capizzi a Palermo e provincia. L’uomo, che è di Belmonte Mezzagno, alcuni giorni prima si era presentato da Massimo Mulè per parlargli di un lavoro. Così alla fine, durante la riunione si decise di chiedere la classica ‘messa a posto’: “La prossima volta che viene – diceva lo stesso Mulè – (…) gli facciamo dire così: quando vieni qua… se ci sono cose tue personali… che noi altri ti vogliamo mettere a disposizione… ti mettiamo a disposizione (…) che certo… eeh? Noi altri ne abbiamo di bisogno! Noi altri… abbiamo i carcerati… abbiamo le difficoltà, ogni mese…”. Alla fine tutti concordavano col capo. E anche Manno, spingendosi più in là, addirittura metteva nel conto anche una risposta violenta: “A noi la pace ci piace… ma la guerra non ci dispiace!”.
I nuovi capi (ma anche gregari e colonnelli)
Con o senza guerra, famiglie e mandamenti da mesi lavoravano alla ricostruzione. Il nuovo corso di Cosa nostra, a Palermo e provincia, era stato affidato a una ventina di boss tra capi e vice di importanti mandamenti e diciannove capifamiglia. In tutto quaranta pezzi da novanta, boss navigati o semplici riserve “costrette” a scalare tutte le gerarchie per via delle retate. Dovevano essere loro ad occuparsi della rinascita. A loro era stato affidato il compito di rimettere in piedi la commissione provinciale. E il primo, il più importante tassello di questa ricostruzione, era sicuramente Benedetto Capizzi. Dai suoi feudi, le roccaforti di Santa Maria di Gesù e Pagliarelli (quest’ultimo mandamento fino a un paio di anni fa era retto da Nino Rotolo), Capizzi aveva deciso di sferrare l’attacco decisivo, di spingersi più in là, di lanciare l’assalto alla poltrona più calda di Cosa nostra. Quella che nessuno, neanche Bernardo Provenzano, è mai riuscito a togliere a Totò Riina. Con lui i carabinieri del comando provinciale dovevano arrestare anche il figlio Sandro (che ha avuto funzioni direttive nel mandamento di Pagliarelli dal settembre 2007 fino alla scarcerazione di Francesco Paolo Barone, anche lui arrestato, e di quello di Santa Maria di Gesù dal settembre 2007 al maggio 2008), che però è sfuggito alla cattura. Sempre in questa importante fetta di città il provvedimento di fermo ha interessato Giuseppe Calvaruso (Pagliarelli) e Giuseppe Greco (Santa Maria di Gesù).
Quella tracciata dai carabinieri del comando provinciale, è una delle fotografie più attuali e dettagliate sull’organigramma di Cosa nostra. Un lavoro capillare, che oltre ai capi ha dato un nome e un cognome anche a seconde e terze file, a colonnelli ed esattori del racket. E tra facce nuove e vecchie conoscenze spunta anche il nome di Giovanni Adelfio, ritenuto capo del mandamento di Santa Maria di Gesù-Villagrazia, col quale sono finiti nella rete Salvatore Adelfio, Antonio Gioacchino Capizzi e Salvatore Freschi (sfuggito alla cattura). L’operazione ha fatto piazza pulita da un capo all’altro della provincia, da San Mauro Castelverde, dove è stato catturato Francesco Bonomo (presunto reggente del mandamento), a San Giuseppe Jato, dove assieme a Gregorio Agrigento (ritenuto il reggente del mandamento) sono finiti in cella Giuseppe D’Anna, Antonio Alamia, Salvatore Mulè, Giovan Battista Licari e Giuseppe Caiola (presunto capo della famiglia). Con Antonino Badagliacca (reggente della famiglia di Monreale) sono finiti in cella anche Filippo Annatelli, Paolo Mario Bellino, Davide Buffa, Domenico Caruso, Salvatore Catania, Girolamo Catania, Sergio Damiani, Castrenze Nicolosi, Giuseppe Russo e Francesco Sorrentino.
Numerosi – anche grazie al pentimento di Giacomo Greco – gli arresti compiuti ai danni del mandamento di Belmonte Mezzagno, a capo del quale ci sarebbe stato Antonino Spera. Assieme a lui sono finiti in cella Pietro Calvo (presunto capo famiglia), Giusto Arnone, Salvatore Barrale, Filippo Salvatore Bisconti, Salvatore Bisconti, Alessandro Capizzi, Gaetano Casella, Giuseppe Casella, Francesco Chinnici, Giuseppe Ciancimino, Giovanni Costantino, Giuseppe La Rosa, Giovanni Salvatore Migliore, Antonino Musso, Benedetto Tumminia, Michele Tumminia, Michele Salvatore Tumminia e Salvatore Francesco Tumminia.
Ancora nomi. Alla Noce, con l’accusa di essere il capo del mandamento, è stato fermato Luigi Caravello; a Corleone Rosario Lo Bue; a Resuttana il presunto capo, Gaetano Fidanzati, è invece sfuggito alla cattura, a differenza del suo vice, Salvatore Lo Cicero, che è stato invece bloccato. Uno dei mandamenti più colpiti, dopo Belmonte, è sicuramente quello di Porta Nuova, quello che Gaetano Lo Presti, il capo secondo l’accusa, avrebbe voluto mantenere in pace e lontano dai guai. Lì, oltre al reggente, sono finiti in cella Giovanni Lipari, Fabio Manno (capo della famiglia di Borgo Vecchio), Salvatore Milano, Giovanni Polizzi, Salvatore Bellomonte, Marco Coga, Giuseppe Di Giacomo, Marcello Di Giacomo, Tommaso Di Giovanni, Massimo Mulè, Placido Naso, Vincenzo Di Maria e Giuseppe Di Cara.
Un altro personaggio-chiave dell’inchiesta è sicuramente Giuseppe Scaduto, capo del mandamento di Bagheria, assieme al quale è stato arrestato Gioacchino Mineo, suo braccio destro e sostituto dal 2005 al 2007. Gli altri elementi di spicco arrestati sono Luigi Caravello (capo del mandamento di Noce-Cruillas), Vincenzo Tumminia, vice capo di Noce-Cruillas e reggente della famiglia di Altarello da quando è stato catturato il fratello Piero, e la “triade” composta da Mariano Troia, Giuseppe Biondino e Giuseppe Lo Verde, che ha preso in mano le redini di San Lorenzo dopo la cattura di Salvatore, Sandro e Calogero Lo Piccolo.
Ma non è finita, perché oltre ai capi, i carabinieri sono riusciti a “pizzicare” un po’ da tutte le famiglie della provincia, da Borgo Molara (dove è stato arrestato Benedetto Cappello) a Corso Calatafimi, dove le manette sono scattate per Santo Dell’Oglio, Francesco Leone, Giuseppe Marano, Giuseppe Perfetto e Vincenzo Di Gaetano, da Brancaccio (dove il provvedimento doveva essere notificato a Ludovico Sansone, che invece si è sottratto alla cattura) all’Uditore (Baldassarre Migliore e Rosario Sansone), passando per Montelepre, dove sono stati arrestati Salvatore e Vincenzo Carlo Lombardo.