Veleni, correnti e giochi di potere | Le toghe incapaci di essere unite - Live Sicilia

Veleni, correnti e giochi di potere | Le toghe incapaci di essere unite

Il Palazzo di giustizia di Palermo

La magistratura dovrebbe mostrasi capace di essere e apparire un blocco monolitico contro il malaffare. Ed invece nella storia del Palazzo di Giustizia di Palermo c'è sempre una "botola" di troppo. L'ultima si è aperta durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario.

PALERMO – La botola si è aperta anche durante l’assise dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. C’è finita dentro, ancora una volta, la capacità della magistratura di mostrarsi compatta persino nel momento della parata liturgica, quando le toghe sono rosse per la sacralità laica della cerimonia.

Lo scettro stava lì, nell’aula magna della Corte d’appello di Palermo, adagiato su un cuscino, a simboleggiare uno dei poteri dello Stato che ha mostrato, ancora una volta, l’incapacità di essere e apparire un blocco monolitico dedicato a contrastare crimine e malaffare. La storia del Palazzo di giustizia di Palermo è segnata da veleni, contrasti di potere, giochi di correnti. Oppure – più modestamente – di piccole beghe, invidie e gelosie. Ci sono pure, ad onor del vero, storie di travagli interiori.

Stavolta a provocare i malumori sono state le parole di Vito Ivan Marino, presidente reggente della Corte d’appello e il suo invito ai colleghi affinché si impegnino per una magistratura “immune da ogni atteggiamento di personale protagonismo”, perché la magistratura “non può prescindere dal carattere di indipendenza e imparzialità, di rigore e di obiettività”. C’è chi vi ha letto un riferimento ai pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia che alla cerimonia non erano presenti. Ufficialmente perché impegnati altrove.

Molto più diretto, senza possibilità di dubbio sui destinatari, un altro passaggio della relazione di Marino: “Non si può sottacere che la indubitabile contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti in precedenza, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi”. E mentre Marino faceva notare in un passaggio successivo che “non può di certo dubitarsi che l’espansione inarrestabile dei fenomeni di corruzione possa sfuggire al controllo ed alla interessata partecipazione di Cosa nostra”, in fondo all’aula qualcuno bisbigliava il nome del figlio del presidente, arrestato due anni fa perché, da funzionario del dipartimento delle carceri, avrebbe intascato una mazzetta da un imprenditore. Bisbigliare non dire, perché al Palazzaccio le mezze parole pesano più di un concetto espresso a pieno.

Il riferimento ai magistrati superscortati ha spostato il dibattito – al palazzo è ormai un’abitudine fra gli addetti ai lavori, cronisti compresi – sul tema trattativa Stato-mafia, visto che a vivere blindati sono i magistrati che rappresentano l’accusa al processo. Già, la Trattativa, argomento principe delle stanze e dei corridoio del Palazzaccio. Marino nella sua relazione si era ‘limitato’ ad un “deferente saluto e ringraziamento al capo dello Stato per il costante richiamo alla sobrietà e alla riservatezza della nostra condotta”. Altrove qualcuno ha ritenuto opportuno ricordare pubblicamente che proprio da Palermo era partita la citazione in aula di Napolitano. Il presidente della Corte di Appello di Milano, Giovanni Canzio, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario l’ha definita evitabile. L’audizione di fine ottobre fu il culmine di una stagione di tensioni. Si iniziò a litigare quando l’ex capo dei pm Francesco Messineo si rifiutò di firmare l’avviso di conclusione delle indagini, prendendo le distanze dall’aggiunto che quelle indagini le coordinava. Era Antonio Ingroia, il pm prima candidato in politica e poi dalla politica piazzato a guidare una società partecipata della Regione siciliana. Lo stesso Ingroia, autorevolissima voce della corrente di sinistra della magistratura che propiziò il ribaltone che nel 2006 consegnò la Procura a Messineo anziché a Giuseppe Pignatone. La lite proseguì quando lo stesso Ingroia definì “politica” la sentenza della Corte costituzionale che diede ragione a Napolitano nel conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato sulle telefonate con Nicola Mancino. Si litigò persino alla riunione della Dda, quando l’allora procuratore facente funzioni Leonardo Agueci – Messineo era da poco in pensione – comunicò ai colleghi che avrebbe presenziato alla testimonianza. Alcuni pm del pool dissero di non sentirsi rappresentati da Agueci. Tutti gli altri sostituti presenti ritennero doveroso segnalare la necessità della presenza del procuratore. Alcuni di loro non le mandarono a dire, contestando i colleghi per avere cercato la ribalta mediatica attraverso la citazione del capo dello Stato, giudicata ininfluente per il processo. Un processo che secondo alcuni, in primis Vittorio Teresi, l’aggiunto che ha preso il posto di Ingroia, doveva essere centrale nella partita per la nomina del nuovo procuratore. Non ne aveva fatto mistero, auspicando che il suo nuovo capo sposasse con “piena condivisione” il processo. Ci teneva e ci tiene parecchio. Lo dimostrò criticando aspramente le motivazioni con cui il Tribunale decise di assolvere il generale Mario Mori dall’accusa di favoreggiamento.

Acqua passata, si potrebbe dire. L’audizione di Napolitano si è tenuta, Agueci non è più il facente funzioni, e la Procura ha in Franco Lo Voi il nuovo capo. Si potrebbe appunto, ma non si può. Perché la vittoria di Lo Voi ha provocato più di un mal di pancia. Lo consideravano distante dalle posizioni del processo sulla Trattativa a differenza dei due candidati sconfitti, Guido Lo Forte e Sergio Lari che, nel frattempo, hanno fatto ricorso contro Lo Voi. Il nuovo procuratore sembra armato di propositi distensivi. Durante l’anno giudiziario ha sentito l’esigenza di ribadire l’unità della Procura di Palermo. Così come sentì l’esigenza, nel giorno del suo insediamento, di dire che “non ci sono veleni alla Procura e non ce ne saranno. Casomai ci sono fuori, ma ci scivoleranno addosso. I processi e le indagini andranno avanti tutti perché sono tutti importanti. I fari che illumineranno il nostro cammino sono la Costituzione e le leggi”. Costituzione e leggi, pilastri delle Istituzioni alla cui credibilità non giova il percorso tortuoso, botole incluse, della magistratura verso la capacità di essere ed apparire compatta.


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