Buttanissima Sicilia al 'Biondo' | E le risate diventarono lacrime - Live Sicilia

Buttanissima Sicilia al ‘Biondo’ | E le risate diventarono lacrime

Un momento dello spettacolo

Si può ridere fino a piangere? Si può piangere dopo avere riso? Si può. Buttanissima Sicilia, ieri in scena al 'Biondo', dimostra proprio che si può. LE FOTO

Una sera a Palermo
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E nell’incantevole monologo finale, mentre scivola via la terra amata, un po’ si piange, perché si chiama satira ciò che sempre conduce alle lacrime dopo un sentiero di cocci e di risate. Buttanissima Sicilia e buttanissimi noi: è la conclusione del teorema, nel trasfigurarsi dello spettacolo – andato in scena al teatro ‘Biondo, a Palermo, ci sarà una replica per abbondanza di richieste – tratto dal libro omonimo di Pietrangelo Buttafuoco.
Alcuni Siciliani l’hanno composto. In didascalia pasoliniana da bianco e nero: Peppino Sottile che scrisse, aggiungendo altra scrittura al raccolto e fornendo architettura alla regia. Ficarra e Picone che inventarono il monologo conclusivo. Costanza Licata e Rosemary Enea che – tra strumenti e fiato – diedero voce cristallina allo sberleffo e al rimorso. Salvo Piparo che tenne il palco con l’ausilio di pupi veri e fantastici, con la pasta da lanciare sul pubblico, in forma di popolana metafora della compravendita dei voti, col ghigno del comico e con gli occhi del poeta.

Salvo merita forse una noterella in più: per quel suo respiro incessante che andrebbe propagandato come perfetto spot contro l’enfisema, per il suo innestarsi in una tradizione di artisti – da Peppe Schiera a discendere – che tramandano il lirismo, l’acume, il disincanto, affondando gli artigli nelle viscere, con la grazia di una smorfia. E per l’umiltà e l’umanità che lo rendono amabile, generoso col pubblico, fino a espettorare l’ultimo soffio. Buttanissima Sicilia e Buttanissimi noi che abbiamo letto il papello di Buttafuoco, ma abbiamo sorriso, innocenti. Poi, una volta chiusa la copertina gialla, ci siamo sentiti trafitti da un pugnale interiore, da una vocina che sussurrava: “Ti conosco mascherina. Tu sorridi, ma che hai da sorridere? E’ tutto vero”. Buttanissimi noi, accorsi al ‘Biondo’, in una serata di tuoni e fulmini. Ci siamo accomodati tra poltroncine e panche, deponendo cappotti e ombrelli lucidi. Abbiamo riso, di cuore, di stomaco, stavolta. Poi, mentre sfilavamo verso l’uscita, paghi dello spettacolo, inquieti della realtà, quella vocina ci ha pugnalato ancora.

Perché è satira ciò che ride di cose apparentemente lontane, ma – alla calata del sipario – rivela la sua messinscena, svelando l’impostura; è satirico il cammino che consegna all’amara verità, simulando altro. E questa satira punta il dito; afferma che sei tu – siciliano, spettatore e masochista – il pupo che merita il lazzo e lo scherno. Sei tu – tu che fai “oh oh ah ah” in platea – che hai tradito, sbagliando voto, vendendo l’anima per un piatto di pasta. Tu che, con gli amici, ti atteggi a moralista, eppure – col silenzio e con l’impostura – hai deflorato una terra incantata rendendola prostituta, cioè buttanissima.

C’è sempre un’impostura dietro una deflorazione, non soltanto la menzogna: la costruzione di un’epica per rimboccare le lenzuola del nulla, mettendo a letto la speranza, con una ninna nanna avvelenata. L’impostura della politica che si mostrava paternalista ed era vorace, in tempi andati. L’impostura di una rivoluzione – e siamo al tempo recente – che ha sopraffatto la coscienza, per impotenza, per cattività.
Salvo Piparo quel nome lo proclama, come è proclamato nel libro, quando alza le braccia al cielo, gridando: “Siamo nelle mani di Rosario”, ovvero del presidente della Regione sul trono; Sasà, se se, il re dell’antimafia secondo il ritornello della canzone. L’urlo sfiamma in coda a un circo di personaggi: ci sono Vancheri e Faraone, Cracolici e una “fazzolettata di amici”, Musumeci “con libro e moschetto”, Miccichè a cui un immaginario usciere domanda: “Scusi, lei chi è?” (ma non lo domanda certo con tale buona educazione).

“Siamo nelle mani di Rosario”, prorompe la preghiera beffarda, a fermare la macchina. Ed è in quel momento che si manifesta il miracolo, la liquefazione del sangue della satira. I siciliani in platea scorgono la verità, che era a pezzi, narrata a spizzichi e bocconi, nella sua crudele interezza. Il sipario cala sulla dipartita della terra madre che forse, un giorno, ritornerà. Infine, si apre l’ombrello e ci si avvia verso qualcosa da mangiare per riempire lo stomaco vuoto, in un miscuglio di cocci e di pioggia, quaggiù, tra la Sicilia e la disperazione. Si va, mormorando voti impossibili e sgranando il rosario.


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