Folla, speranza e babbaluci | Il Festino visto dal basso - Live Sicilia

Folla, speranza e babbaluci | Il Festino visto dal basso

La Festa di Palermo vista con gli occhi del suo popolo. Il racconto di una notte indimenticabile.

Il canto di Palermo parte da lontano. Dai neon di viale Strasburgo. Dal profumo di gelsomino che inonda viale Campania, oltre il fetore della munnizza, issando la bandiera dell’ultima resistenza umana. Dalle preghiere dei cantieri e delle gru, alte come croci. Da quell’ombra di siepe in via Sciuti che proteggeva una clandestinità di baci e passeggiate mano nella mano all’epoca dei quindici anni. Dai coni gelato di Mondello. Dalle meduse di Isola delle Femmine. Dalla solitudine, dallo sconforto, dalla speranza. Il Festino – come ogni anno – prende l’avvio dalla città appartata e nascosta, dai suoi luoghi e dalle sue memorie pubbliche o private che convergono, seguendo una stella cometa, una luminescenza di calia e sospiri, fino al carro della Santuzza.

In via Roma, Domenico Simonetti – farmacista per professione, filosofo per vocazione – discorre proprio di Santuzze e miracoli: “Io adesso – dice Mimmo, così è noto – chiudo bottega e scendo per la Cala. E che faccio? Mi metto a chiacchierare con le persone, attacco bottone. Abbiamo bisogno di dialogo, di guardarci negli occhi, di riscoprirci l’uno con l’altro: questa è la giornata ideale”. La dissertazione è ascoltata con atteggiamento compito da un ragazzo e una cagnetta, gli avventori della farmacia. La cagnetta ha nome Nirvana. Il ragazzo si chiama Sergi Rodriguez Basoli; sta girando mezzo mondo in kayak e ha toccato Palermo. Ha sentito parlare di Rosalia – la fanciulla di rosa e di giglio – che tagliò le sue trecce d’oro e andò in sposa al monte. “A Barcellona dove abito io – spiega Sergi che è ingegnere di professione e girovago di vocazione – non c’è niente di simile”. E se ne sta, muto, con le fate a vorticargli negli occhi sgranati, mentre Mimmo continua a declamare se stesso: “Il Festino più bello? E’ sempre quello che verrà”.

La Farmacia delle Poste si popola. I clienti vengono presi al laccio dalla retorica simonettiana. Anche per l’avventore Mimmo (un altro Mimmo) Chifari la Santuzza è sacra. E se dovesse chiederle un piacere? “Vorrei che mi levasse di torno ‘stu Zamparini, sta rovinando una squadra, sta rovinando…”. Sua moglie Vincenza annuisce un po’ perplessa.

Il canto di Palermo è una marcia solenne di periferie che si addensano tra le chiome di grano di Rosalia. E’ uno strano fenomeno geografico per questa nostra panormitanità che sopravvive di isolamenti, bandiere e confini. Ma la notte del 14 luglio ogni scheggia si raggruma in una parvenza di comunione, in una tela coerente di corpi, fiati e sudore, tra il Cassaro e la Marina, fino al sospiro sospeso del carro. E sono tutti qui, i palermitani, ognuno con un immaginario segnaposto, su una ipotetica linea della partenza, pronti a scattare per raggiungere il traguardo della salvezza, che è il punto critico: si tratti di squadre, anime o piatti da mettere a tavola.

La signora Giovanna La Tona la sedia se l’è portata da casa, per antica esperienza e preveggenza. In corso Vittorio, un po’ arranca, un po’ si riposa: “Vengo a vedere il Festino da quando ero bambina – racconta -, per me è l’appuntamento più dolce”. E’ una irriducibile tifosa di Rosalia, la signora Giovanna. Descrive i fantasmi dei Festini passati e gli occhi le si illuminano, tratteggiando ritagli in bianco e nero di una capitale che fu, con i suoi sogni di porcellana. E, nelle sue cronache, scopri che sempre si sono intrecciate due contrapposte vicende: la peste e la guarigione. Solo che il secondo termine è un miraggio d’acqua nel deserto. “Vorrei il lavoro per i miei figli, questo chiederei alla Santuzza”, conclude Giovanna, prima di lanciarsi all’assalto di una rutilante folla.

Il canto di Palermo è qui, nella popolazione semplice, alle volte ‘gargia’ e appiccicosa che la percorre. Inutile storcere il naso. Solo piatti forti stasera. Il carro è uno scintillio di fate, laggiù, a Palazzo Reale. I ragazzi palermitani provano a riscoprire una ragione per sorridere, nonostante tutto. Martina Sanzeri ha vent’anni, è bruna, non bionda come Rosalia. Tuttavia è come se le parlasse al cellulare, invocando la grazia di non dovere andare via, con una valigia rattoppata, al compimento del corso di studi. “Sì, vorrei restare, anche se so che non sarà semplice. Però qui è bello, c’è come un’aria, un’aria…” “di familiarità – riecheggia la compagna Giovanna Grimaudo -. Non ti senti mai straniero”. Il dibattito diventa multi-generazionale. Interviene Santino Costa, capelli bianchi e molta rabbia in corpo: “Mia nipote, con due lauree, ha un lavoro precario da quattro soldi. Scappate, se potete”. Intanto, il carro sospira ancora e si avvicina, nella sua lieta via crucis. Il Festino è come il presepe di Eduardo: “E’ l’occasione in cui la città si fa accogliente. E piace”, chiosa Gaspare Scimò.

Allora bisogna sedersi da qualche parte e gustarsela in pace questa dimora del calvario redenta, questa Cenerentola trasformata, per una notte in regina. Il carro incede. Nell’alto dei cieli volteggiano strepitosi angeli-acrobati; sindaco e vescovo osservano compiaciuti la fiumana di viandanti. Eppure, il vero Festino è il portento plebeo visto dal basso, con i suoi personaggi e i suoi interpreti.

C’è il tale che ha deciso di erigere un monumento social. Cammina, riprendendosi col telefonino montato su una specie di protesi. Lui parla, lui si dà conto. Ci sono vecchi coniugi – marito e moglie sgarrupati – che traballano, più che camminare. Vanno, perché la Santuzza, dolcemente, lo impone. Ci sono cinesi talmente palermitanizzati da polemizzare in dialetto, chiamandosi reciprocamente ‘cucì’. Ci sono giovanotti doc che sembrano usciti da un film con Jerry Calà sugli yuppies degli anni Ottanta: scarpe lucide, tacchi a fendere la calca, criniere più che capigliature; non avranno sbagliato mondo?

C’è Iachino, con i suoi tre figli piccoli che gli scappano da ogni parte sui gradoni del Cassaro. Ne acchiappa uno e due gli sfuggono. Li insegue, volteggiando sulle tappine da combattimento. Alla fine, siede sconsolato e addenta un panino col salame. Non c’è, invece, il signor D’Arpa, che non mancava mai, nonostante le stampelle. E’ morto dopo una ricca cena a base di babbaluci. Si avverte un’insolita atmosfera di gentilezza: omaccioni che, nel traffico del mattino, si prenderebbero a colpi di chiave inglese, nella contesa di un centimetro, si offrono la panchina rimasta, vicendevolmente. E quasi litigano per accaparrarsi il piacere della rinuncia.

Il canto di Palermo ora si alza a piena gola. Ecco il carro, con i suoi angeli e con le sue luminarie. C’è chi sperimenta un selfie con la Santuzza. C’è chi tenta slalom azzardati per sfiorare un lembo di salvezza. In quel preciso momento, il comandante della sezione locale degli scarafaggi dà il via libera alla sua fanteria che si precipita, compatta, con un moto d’entusiasmo, sulla strada. Scene di panico, però nessuno cede. Tutti sono stati convocati dalla malia della fanciulla che sposò il monte e che adesso scioglie le sue lacrime in luce, mentre sui cellulari lampeggiano le prime notizie di un ennesimo attentato. Ma è ancora presto per comprenderlo nella sua interezza.

Canta Palermo, con la voce arrochita dall’emozione, come le capita solo una volta all’anno. Canta fino all’ultimo sospiro del carro. Infine, di colpo, si spegne. Tornano le bandiere e i confini. Tornano le periferie. Tornano i reticolati e i malanni. Tutto torna com’era, nel destino di Cenerentola. Ma nel cielo sopra la disperata speranza c’è ancora come un volo di angeli, come uno sventolio di gelsomini.

 


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI