Due catanesi a Barcellona |Gli attimi terribili dopo l'attentato - Live Sicilia

Due catanesi a Barcellona |Gli attimi terribili dopo l’attentato

Foto Ansa

La testimonianza di Giovanna e Massimo. “Il nostro albergo è proprio su La Rambla", raccontano.

Giovanna e Massimo su La Rambla

CATANIA – “State tranquilli, stiamo bene. Al momento dell’attentato non eravamo su La Rambla”. È vero, Giovanna Russo e Massimo Adorno, in quel momento non erano sul luogo dell’attentato che c’è stato ieri pomeriggio su La Rambla di Barcellona, ma erano ugualmente molto ma molto vicini. Stavano andando via dall’Acquario ma si sono ben guardati di specificarlo durante la telefonata che hanno fatto a mamma Gisa non appena hanno saputo dell’attentato. Sì, esatto, perché Massimo e Giovanna la notizia dell’attentato l’hanno saputa dall’Italia pur essendo a due passi da quel disastro.

“Il nostro albergo è proprio su La Rambla – racconta Giovanna – e da lì eravamo andati all’Acquario. Siamo rimasti a guardare vasche e pesci senza renderci conto del tempo che passava. Solo all’uscita avevo controllato l’orologio: «Mamma mia, sono già le cinque?!», ma il nostro giro turistico non era finito. Mancava una tappa importantissima, la mostra di David Bowie al Museu del Disseny. Ci incamminiamo e neanche due minuti dopo ci sfreccia accanto un’ambulanza diretta a La Rambla… e poi ancora un’altra. Passano sfrecciando a tutta velocità quasi facendoci il pelo e la sensazione che proviamo è strana. Ma ancora non sapevamo nulla”, continua Giovanna ripensando a quel momento in cui aveva creduto fossero state attivate per dare soccorso al malore di qualche turista.

La verità è arrivata pochi minuti dopo con lo squillo del telefono: “State bene? Dove siete?”. La voce concitata è quella di Mik, il fratello di Giovanna. Ha sentito l’ultima ora alla televisione ed è letteralmente saltato dalla sedia. E in quello stesso salto ha preso il cellulare e composto il numero. Venti secondi di panico e poi, per fortuna, un gratificante “Stiamo bene!” che gli riempie l’anima. La seconda telefonata è per rassicurare mamma Gisa che ancora non sapeva nulla.

“A quel punto abbiamo capito il perché delle ambulanze e non eravamo più così sereni, ma abbiamo pensato che chiuderci in un museo senza rimanere in mezzo alla strada fosse davvero l’idea migliore. Il problema caso mai era arrivarci al museo – confessa Giovanna – con il cuore che batteva a mille. E parlando con la tizia della biglietteria i battiti aumentavano. Poche notizie ma quelle poche già bastavano: diversi morti e feriti, nessun ostaggio e parte de La Rambla chiusa. E ovviamente una città in subbuglio. Rimaniamo al museo del Disseny fino alle otto di sera. “Più tardi torniamo, più calma troviamo” ci dicevamo io e Massy ma il nostro albergo era proprio sulla Rambla e non c’era modo di evitare di passare da quella strada martoriata. Né potevamo decidere di non tornare in albergo: avevamo il volo di ritorno alle quattro del mattino”.

Nel frattempo, in quelle tre ore, Barcellona era diventata un’altra città. Negozi chiusi, strade con pochissime persone e soprattutto silenzio. Un silenzio irreale che poco e nulla aveva a che fare con il chiasso gioioso del giorno prima in cui era stato festeggiato San Rocco con fuochi d’artificio, musica e una folla di gente che faceva pensare alla festa di Sant’Agata. “Se fosse successo ieri sarebbe stata davvero una strage” ci dicono insieme Giovanna e Massimo “eravamo accalcati e ammassati. Gomito a gomito con chi ci stava vicino. Se un camion fosse piombato sulla folla il panico avrebbe fatto più morti dell’attentato. Intanto cercavamo di raggiungere l’albergo ma farlo senza entrare su La Rambla non è facile: strade e viuzze laterali ti deviano facendoti perdere il senso dell’orientamento. E poi il panorama è un po’ spettrale – in effetti con la sera lo sarà di più, aggiunge Massimo – tra strade deserte e negozi aperti e molti altri chiusi. Chi ha deciso di rimanere aperto l’ha fatto anche per aiutare i passanti e non sono stati i soli. La solidarietà tra chi incontravi per strada era tangibile, reale e commovente quasi quanto la paura che si leggeva nei volti di molti turisti. Troviamo un ristorante aperto e decidiamo di fermarci a mangiare. È un’altra scusa per perdere tempo e ritardare il ritorno in albergo. Ma ci sta. Mangiamo e questa volta la meta è obbligata: bisogna tornare in albergo. Ma è più facile dirlo che a farlo. Nel frattempo – raccontano entrambi – abbiamo saputo di più sull’attentato: i morti certi (13 ieri, oggi saliranno a 14 con due italiani tra loro, nda) sono tanti. Troppi. E per noi trovare la strada giusta non è così semplice, ma un poliziotto ci aiuta a tornare in albergo trovandolo il bandolo della matassa lungo le stradine che portano a La Rambla. Mentre ci affrettiamo ci accorgiamo che il silenzio è davvero la cosa più strana di Barcellona ed è spezzato solo dal rumore dei mezzi delle forze dell’ordine, compresi gli aerei e gli elicotteri che hanno sorvolato la zona senza sosta, o dalle ambulanze”.

Giovanna e Massimo arrivano in albergo ma solo per prendere le valigie e andare in aeroporto. Piazza Catalogna è chiusa e bisogna trovare gli autobus (che subito dopo l’attentato sono stati fatti circolare gratuitamente) per andare in aeroporto dove arrivano poco dopo mezzanotte. Il loro aereo sarà il primo a decollare e mentre fanno il check-in una hostess di terra catalana li saluta con tristezza dicendo “Siamo tutti europei e io non posso non pensare a quello che è successo in Francia, in Germania, in Inghilterra e oggi anche qui da noi”. E a noi scappa una lacrima.

 


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