"Amore, vado in tribunale" | Come andare al fronte - Live Sicilia

“Amore, vado in tribunale” | Come andare al fronte

Una passeggiata mattutina per necessità. Al tempo del Coronavirus.

Coronavirus
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3 min di lettura

PALERMO– L’atmosfera in casa è quella che accompagna i grandi eventi. Devo andare in Tribunale per un adempimento che ritengo urgente. Forse non lo è. Ma l’incertezza produce ansia, e l’ansia (così dicono gli esperti) abbassa le difese immunitarie. In tempi di coronavirus sono un patrimonio da amministrare con estrema oculatezza. Mentre preparo con scrupolo l’autocertificazione, mia moglie continua a maledire l’incertezza del diritto. Eppure dovrebbe esserci abituata. Ormai, di diritto, ne sa più di me.

E’ lei a fare l’ultimo controllo dei dispositivi di sicurezza, che poi sono solo i guanti in lattice e la mascherina. Già, la mascherina. L’ha confezionata lei con le sue mani dopo aver visto una trasmissione televisiva. Ed è lei a sistemarmela accuratamente sul viso, chiudendo tutti i varchi. Le faccio notare che gli elastici mi piegano i padiglioni delle orecchie facendomi somigliare a ET. “Che te ne frega, sei bellissimo”. Questione archiviata.

“Giò stai attento” , le sue parole quando mi accompagna alla porta. La rivedo alla finestra che mi saluta. E’ come andare al fronte.

Per strada si procede. Poche autovetture ed un discreto via vai di persone. Ma si capisce che vanno per la spesa. Parcheggio l’auto in modo da non attraversare la piazza. Devo darle le spalle, alla piazza. Questo è il mio imperativo categorico. So che il bar, il barbiere sono chiusi, e non voglio guardarla. Ho un umore che si muove in una sottilissima linea e non mi pare il caso di procurargli oscillazioni.

Procedo a passo spedito. Non temo il metaldetector. So che dovrò posare solo le chiavi della macchina ed il cellulare. E per questo che in tasca non ho neppure le due monete da due euro che mia moglie voleva che mi portassi. Almeno quelle. Siamo rimasti a zero e dovrò pure fare il bancomat.

L’obiettivo è il primo piano, corridoio F. Salgo a piedi, meglio evitare gli ascensori. Non c’è nessuno. Lo scenario è spettrale. Faccio capolino nella stanza “Ufficio impugnazioni”. Vedo l’addetta che sta sanificando la scrivania. “Buongiorno”, faccio con un filo di voce. Lei mi guarda. Sembra quasi sorpresa. Avrebbe ragione, non sono neppure le nove ed io non posso neppure sorriderle con la mascherina. “Devo depositare un appello”. “Stanza accanto” mi dice.

Faccio per entrare e raggiungere la stanza accanto che è comunicante, ma mi intima l’alt. “No, dal corridoio”. Torno indietro. C’è ancora lei, e le consegno il plico in busta di plastica trasparente che contiene le sei copie dell’atto di appello, naturalmente dopo aver disteso il mio braccio in tutta la sua massima espansione. Lei gira il plico alla collega seduta in scrivania, l’ultimo anello della catena di consegna. “Come va?” le domando mentre controlla il mio appello. “Avvocato siamo qua”.

“Avvocato siamo qua”. E’ incredibile come con tre parole si possa sintetizzare un universo. Vorrei esprimerle la mia vicinanza, almeno con un sorriso o la sola mimica facciale. Impossibile. Maledetta mascherina.

“Tutto a posto, avvocato, può andare”. Missione compiuta, mi dico. Torno nelle retrovie, al mio bunker. L’assedio durerà ancora. “Chi hai visto?” mi chiede mia moglie. Il Signor Tenente.


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