"Quel papà di 45 anni che piangeva... Vi racconto che cos'è il Covid"

“Quel papà di 45 anni che piangeva… Vi racconto il Covid”

Parla il primario del pronto soccorso dell'ospedale Civico alle prese con la seconda ondata. Le storie di chi combatte.
INTERVISTA AL DOTTORE GERACI
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3 min di lettura

PALERMO- Il dottore Massimo Geraci, primario del pronto soccorso del Civico, va in ospedale all’alba e torna la sera tardi, per fronteggiare la seconda ondata del Covid. L’altro giorno, sul suo profilo Facebook, ha scritto: “Per tutti coloro che combattono, ma anche per coloro che pensano che non ci sia nulla da combattere. Per tutti coloro che hanno piena consapevolezza che oggi, combattere ‘la stronza’ significhi prioritariamente ‘dare ossigeno’ alla speranza di chi guarda con gli occhi sbarrati, pietrificato dalla paura, e per tutti coloro che non l’hanno ancora compreso, e pensano di poter ancora togliere le macchie ai leopardi. Per tutti coloro che hanno ritrovato la vera essenza dell’essere operatore e garante della Salute in questo dramma e per tutti coloro che la ritroveranno”.
Era il commento a una fiction che parla di medici,
ma, soprattutto, la confessione di un medico alle prese con la guerra del Coronavirus. Oggi è un altro giorno difficile, l’ennesimo, con la corsia piena e alcuni malati che vengono assistiti in ambulanza.

“Quel papà che piangeva…”

Il dottore Geraci racconta: “Ci vuole qualcuno che sia qui per coordinare, quasi sempre, e che garantisca i momenti cruciali di passaggio. Ecco perché, spesso, sono in pronto soccorso alle sei del mattino e qualche volta torno a casa alle due di notte. Ma tanti colleghi condividono il sacrificio, rimangono oltre il turno o arrivano prima, per dare una mano”.
Ecco lo sforzo eccezionale che le aree d’emergenza stanno sostenendo ovunque, anche a Palermo. E ci sono quegli ‘occhi sbarrati’ che chiedono salvezza e assistenza.
“Sì, quando ho scritto il post – dice Massimo Geraci – avevo in mente un paziente di quarantacinque anni, sistemato nello spazio che abbiamo ricavato per la semi-intensiva. Si collegava in video-chiamata con i suoi figli e non riusciva a trattenere le lacrime, per il respiro corto, per la paura. Erano i figli ad incoraggiarlo: ‘Forza, papà, non mollare!’, gli dicevano. E veniva voglia di condividere con lui, come con tutti, il momento”.

Gli occhi che domandano

Un sospiro profondo. Il racconto continua: “Ci sono i pazienti qui, con i loro problemi, ci guardano lavorare, tutti bardati con le protezioni speciali. Ci riconoscono dagli occhi, dalla camminata, dalla sagoma. Cercano di incrociare il nostro sguardo, tutti con la stessa domanda: ‘dottore, ce la farò?’. Non è facile, perché non sempre si possono dare risposte confortanti. Loro stanno male e noi stiamo male con loro, ma condividiamo la battaglia. Allora, quando passiamo, c’è la pacca sul piede, lo sfioramento della gamba, il contatto, come per dire: noi siamo qui, non ti abbandoniamo. Un altro signore era molto arrabbiato con i cosiddetti ‘negazionisti’, sussurrava: ‘Appena esco di qui…’. Mi sembra incredibile che ci sia chi pensa che tutto questo sia un complotto, una costruzione e che gli ospedali non siano pieni. Ma non possiamo soffermarci su questo, abbiamo altro da fare”.
Come tutti quelli che combattono e che devono schivare le pallottole: non c’è il tempo di riflettere sulle fantasie di chi sta al calduccio. Ci sono vite da salvare, non si possono perdere secondi preziosi a smacchiare i leopardi. L’uomo che piangeva, adesso, per fortuna, sta meglio. Fra qualche giorno potrebbe tornare a casa, tra le braccia di chi ama.


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