PALERMO – Dal 41 bis colabrodo con i capimafia che riescono a comunicare tra di loro al pizzino firmato Matteo Messina Denaro, dallo studio di una nota penalista agrigentina divenuto luogo di summit fra boss all’infedeltà di uomini in divisa. E c’è pure uno dei mandanti dell’omicidio di Rosario Livatino che ha rilanciato la Stidda, sfruttando la la semi libertà dopo 25 anni di carcere.
È sconfortante il quadro che viene fuori dal blitz dei carabinieri del Ros. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha disposto il fermo di ventitré persone. Il grande assente, ancora una volta, è il latitante trapanese.
Dalle indagini, però, emerge la sua recente presenza sul territorio. Tra i fermati ci sono sei capimafia, tre capi della Stidda, un ispettore e un assistente capo della polizia. E ci sono pure poliziotti penitenziari sotto inchiesta. Sono in corso perquisizioni in alcuni carceri di massima sicurezza.
Cimici nello studio della penalista
Per un lungo periodo lo studio di una nota avvocata penalista di Canicattì, Angela Porcello, 50 anni, (difensore di Giuseppe Falsone e di atri tre capimafia al 41 bis), è stato un luogo di summit nella convinzione che fosse una zona protetta per via delle garanzie previste dal diritto di difesa.
Ciò è valso fino a quando i carabinieri non hanno capito che il legale avrebbe dismesso la toga per divenire organizzatrice del mandamento mafioso, forte anche del legame con il compagno uomo d’onore, Gioacchino Buggea, rappresentante del capomafia detenuto Giuseppe Falsone.
Il postino di Provenzano
Sono stati documentati nello studio incontri Luigi Boncori capo della famiglia di Ravanusa, Giuseppe Sicilia di quella di Favara, Giovanni Lauria di Licata, lo stiddario Antonio Chiazza e il palermitano Simone Castello, fedelissimo di Bernardo Provenzano di cui è stato il postino.
Firmato Messina Denaro
I boss agrigentini avrebbero organizzato un canale di comunicazione con Matteo Messina Denaro al quale, pur essendo di un’altra provincia siciliana, viene riconosciuto il ruolo di capo supremo. A lui si sono rivolti per chiedere l’investitura o la revoca di un boss da un incarico di vertice. Le direttive del latitante di Castelvetrano sarebbero giunte attraverso un pizzino che i mafiosi hanno letto mentre erano intercettati.
Il mandante dell’omicidio Livatino
Due ergastolani, tra cui Antonio Gallea, mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, avrebbero sfruttato la semilibertà per tornare ad agire sul territorio e rivitalizzare la Stidda agrigentina che sembrava condannata all’estinzione.
Ed invece gli stiddari avrebbero riconquistato spazi accanto alla tradizionale Cosa Nostra. La semilibertà è stata concessa a entrambi i boss, il secondo tornato in gioco è Santo Rinallo, nel 2015 dopo che i giudici dei tribunali di Sorveglianza di Napoli e Sassari hanno accertato l’impossibilità della loro collaborazione con la giustizia. Erano pronti a tutto gli stiddari, anche a uccidere un imprenditore. Le indagini hanno rilevato l’esistenza di una fragile pax mafiosa sul territorio che rischia di saltare da un momento all’altro.
Altro che carcere duro, è un colabrodo
Il capitolo più delicato dell’indagine coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Claudio Camilleri, Calogero Ferrara e Gianluca De Leo riguarda le connivenze di cancellieri, ispettori di polizia e agenti della penitenziaria.
Tre importanti capimafia di Agrigento, Trapani e Gela sarebbero riusciti a dialogare a distanza. I messaggi sarebbero stati veicolati nella sale colloqui dove i sistemi di sicurezza e vigilanza fanno acqua grazie alla complicità di alcuni agenti.
Il boss agrigentino Giuseppe Falsone avrebbe sfruttato l’aiuto dell’avvocato Porcello. Addirittura una volta le fu consentito di entrare in carcere con il telefonino che usava mentre era a colloquio con il capomafia collegato dal carcere di Novara. Il legale riceveva le lettere non solo di Falsone, ma di altri due capimafia di Trapani e Gela detenuti al 41 bis nello stesso carcere. La corrispondenza non veniva sottoposta a censura e poi il legale avrebbe girato le risposte ai detenuti.
Fino ad ora i tre boss mafiosi si sono scambiati informazioni, ma potrebbero anche sfruttare la situazione per “mettere in pericolo anche la sicurezza dello Stato”.
Inginocchiato al cospetto del boss
L’uomo forte a Canicattì viene individuato nell’anziano boss Calogero Di Caro. Al suo cospetto sarebbe stato condotto un pregiudicato che aveva commesso un furto senza autorizzazione. Lo costrinsero a implorare in ginocchio pietà per se stesso e per la moglie. La mafia della provincia di Agrigento avrebbe messo le mani sul settore della vendita dell’uva e di altri prodotti ortofrutticoli. Per alcuni affari è arrivato a Favara un emissario del clan newyorkese dei Gambino.