Ecco perché difendo l'ergastolo ostativo ai mafiosi - Live Sicilia

Ecco perché difendo l’ergastolo ostativo ai mafiosi

Lo Stato del resto ha già dimostrato di saper tutelare chi decide di collaborare e i suoi familiari.

Hanno ragione Maria Falcone e Salvatore Borsellino nel manifestare dissenso e preoccupazione per l’eventuale alleggerimento del regime penitenziario di boss mafiosi e loro gregari incidendo sul cosiddetto “ergastolo ostativo”. Dopo Pasqua si pronuncerà in proposito la Corte Costituzionale che dovrà decidere, su input della Cassazione, sulla sua incostituzionalità o, come chiesto per conto dell’attuale governo nazionale dall’avvocato dello Stato, se deviare verso una sentenza tecnicamente definita “interpretativa di rigetto” che non accoglierebbe tout court la tesi della incostituzionalità della norma che preclude ai condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo l’accesso alla liberazione condizionale, cioè alla sospensione detentiva della pena (art.176 c.p.),  in assenza di collaborazione con gli inquirenti ma consentirebbe al giudice di sorveglianza di esaminare caso per caso, scontati almeno 26 anni, e di concedere i benefici anche ai mafiosi che si sono macchiati di orribili delitti e sono rimasti in silenzio dinanzi ai magistrati. In questa sede è opportuno, ovviamente, evitare eccessivi dettagli sulla materia ma è utile aggiungere che l’ergastolo ostativo sostanzialmente nasce dopo la strage di Capaci con il decreto legge 306/1992, convertito nella legge 356/1992, applicato alla commissione di precise tipologie di reato gravissime (criminalità organizzata, terrorismo…) se l’autore del delitto non esprime l’intenzione di collaborare con gli inquirenti. Si basa, qui l’aspetto tecnico qualificante per comprendere la diatriba, su una presunzione assoluta di pericolosità sociale che inevitabilmente impedisce al giudice alcuna discrezionalità. Se la Consulta, ecco la svolta, dovesse accogliere il suggerimento dell’Avvocatura dello Stato cadrebbe tale presunzione assoluta di pericolosità e si aprirebbero le porte alla valutazione  da parte del giudice di sorveglianza dei motivi della mancata collaborazione con la conseguente eventuale concessione dei benefici. Collaborazione che finora è stata ritenuta la prova per misurare la volontà del condannato di recidere definitivamente i turpi legami con Cosa Nostra, condizione essenziale se parliamo di rieducazione della pena e, specialmente, di reinserimento sociale secondo il dettato costituzionale.

Dove sta lo scontro tra chi pensa che l’ergastolo ostativo sia incostituzionale e chi invece lo ritiene fondamentale, insieme al carcero duro, nel contrasto alle mafie e comunque giusto in assenza di collaborazione con la giustizia? In estrema sintesi i primi sostengono che possono essere tanti i motivi dell’indisponibilità del soggetto a rivelare importanti notizie sul sodalizio mafioso d’appartenenza, soprattutto il timore di fatali ritorsioni nei confronti della famiglia, indisponibilità che non esclude automaticamente il ravvedimento del mafioso a quel punto, però, da rintracciare diversamente. I secondi, invece, affermano che eliminare la presunzione assoluta di pericolosità sociale del mafioso che si è macchiato di stragi e omicidi e non collabora non solo vuol dire tornare indietro di 30 anni nella lotta alla mafia, con buona pace dell’estremo sacrificio di Falcone e Borsellino, ma si spalancherebbe un portone a chi esteriormente si è mostrato irreprensibile in carcere ma unicamente per poter tornare, una volta fuori con la liberazione condizionale, a delinquere attraverso l’organizzazione criminale magari commettendo o ordinando nuovi omicidi. Personalmente sono contrario a qualunque forma di ripensamento del regime penitenziale di cui all’art. 4 bis dell’Ord. Penit. definito “ergastolo ostativo”. Va detto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha ordinato allo Stato italiano la soppressione dell’ergastolo ostativo  (purtroppo il fenomeno mafioso nella sua complessità sembra spesso sfuggire agli organismi giurisdizionali  europei e internazionali) e l’art. 27 della Costituzione, è vero, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Infatti, esiste la possibilità di accedere ai benefici di legge dimostrando un fattivo ravvedimento che riferendosi a efferati delitti perpetrati in quanto appartenenti a un’organizzazione criminale, tuttora operante, non può prescindere dalla collaborazione con la giustizia al fine di smantellare definitivamente l’organizzazione stessa fondata, tra l’altro, sull’omertà dei suoi affiliati. Lo Stato del resto ha già dimostrato di saper tutelare chi decide di collaborare e i suoi familiari mentre affidare alla discrezionalità del giudice di sorveglianza la concessione di taluni benefici non solo esporrebbe eccessivamente il singolo magistrato, ponendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi familiari,  ma paradossalmente potrebbe provocare, di fatto, disparità di trattamento.

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