PALERMO – L’aspettavamo con i taccuini spianati. L’aspettavano con qualche maglia pallidamente rosanero, i pochi tifosi presenti all’Hotel Excelsior. Lo aspettavamo tutti per vedere, al circo, come può essere goffo un dio popolare senza il suo pallone, quando si tratta di spiegare e non di colpire di tacco. Per sapere quanto è buffo l’albatro che precipita dalle nuvole sulla tolda di una nave. Lo scriveva Baudelaire, uno che non masticava di schedina, ma conosceva discretamente la poesia e il senso delle cose che i versi si portano dietro.
Aspettavamo Fabrizio Miccoli, che ci ha servito l’ultimo dribbling, con un robusto assist della Procura. Rimandata a domani la conferenza stampa, causa interrogatorio, per spiegare qualcosa che non appare moralmente spiegabile. Come si può cantare: “Quel fango di Falcone”? Una scusante? Non l’ho detto, non ero io, non c’entro, mi hanno rapito i marziani e rilasciato dopo l’elettroshock. Siamo nel campo dell’altamente improbabile, per dovere di endemica diffidenza, quasi impossibile. Eppure è giusto, per rispetto del racconto, lasciare aperto lo spiraglio di un residuale, minuscolo dubbio.
La notizia del posticipo piomba in serata nella sala dell’albergo assiepata in ogni ordine di posti, avrebbe riferito Bruno Pizzul. Scarni frammenti di incerta cronaca al cellulare. E’ entrato. No, è uscito dalla stanza del pm. E’ rientrato. L’avvocato sta fumando una sigaretta. E’ lui o non è lui? Definitivo spostamento, comunicato tramite passaparola.
Lo attendevano tutti. Noi, cronisti, con le telecamere, i registratori e le penne puntate verso il bersaglio grosso. Noi che avremmo impegnato le nostre maldicenze più riuscite per un’intervista esclusiva, per una maglietta sudata da regalare ai nipoti, per un particolare sorriso di confidenza dell’idolo nelle chiacchiere del dopo-partita. Noi, prontissimi a sbranare il monumento del giorno precedente. Solo che stavolta c’è un’ottima ragione: Fabrizio Miccoli si è seppellito (molto molto probabilmente) in autonomia, con la pronuncia di una scomunica verso se stesso.
E nel frattempo che ci ragioniamo, ai più romantici viene in mente Maradona, il nume del Romario del Salento, un altro sommo maledetto della pedata. Assonanze naturali. Salgono alla memoria i dettagli di una venerazione continua. Miccoli che si scolpisce il polpaccio con l’effigie di Che Guevera non per ideologia ma “perché ce l’ha Diego”. Miccoli che gli si accende lo sguardo se ripensa alle magie di Napoli, al gol da centrocampo a Giovanni Galli, alla punizione all’incrocio a Stefano Tacconi. Miccolino che diventa piccolo piccolo se sfiora la sua divinità protettrice, tanto da ispirare tenerezza, perché sembra un bambino degli anni Ottanta, illuminato dalla tv, al cospetto di Mazinga Zeta. E bambino non è più.
E ci sono i tifosi a circondare l’ambiente. Cosa gridano? Nulla. Al massimo sussurrano. Un ragazzino con la canottiera rossa implora il cronista affacciato alla finestra dell’Excelsior: per favore mi fai entrare? E il cronista gli spiega che non si può, che non dipende da lui, che anche un assistente è rimasto fuori e non ha oltrepassato l’impeccabile filtraggio dell’ingresso. Il ragazzo lo guarda storto, cattivo. I giornalisti vanno dove gli pare, se si fermano davanti a una porta, hanno scelto così.
Alle otto della sera, dunque, piomba il ‘liberi tutti’. Ciao Fabrizio, ex eroe del popolo. Ci rivedremo domani per chi ci sarà. Albatro senza ali. Dio senza miracoli. O forse no. Forse il dio era Diego che – secondo un altro poeta, un sudamericano – avrebbe stoppato un pallone infangato, di petto, in smoking. Era davvero Diego l’infinito incarnato. Tu, invece, non sei nemmeno Maradona col diritto perpetuo al perdono. Sei Miccoli. Quante finte ti sono rimaste? Quanti avversari? Quanti ostacoli ci sono mentre corri? Quanti fallacci da spaccarsi il cuore più che le gambe, ora che il prato è lontano, tra le insidie del circo e dell’ultimo dribbling?