Forse c’è una strada per provare a trasformare il doloroso ricordo di Biagio e Giuditta e di quei giorni terribili in un qualcosa che non rimanga ristretto all’intimità di chi in un modo o nell’altro ha vissuto sulla propria pelle la tragedia del 25 novembre 1985. Prendo le mosse anche io, però, da un ricordo personale: durante l’omelia pronunziata al funerale di Giuditta, il sacerdote disse che dovevamo immaginare i nostri compagni colpiti come dei “chicchi di grano” piantati, loro malgrado, in un terreno accidentato e confidare che con il trascorrere del tempo sarebbero germogliati fino a dare i loro frutti. Un’immagine molto rassicurante, quasi una programma “razionale” da perseguire, un argine comunque all’insensatezza traboccante dal fiume di parole che pubblicamente si spendevano in quei giorni.
Poi, negli anni successivi, quell’immagine si è magari trasformata per alcuni di noi in una fonte inesauribile di sensi di colpa e di frustrazioni per le occasioni perse, per i tanti insuccessi individuali e collettivi, ma non importa: oggi, piuttosto, parlando soprattutto con i ragazzi che hanno l’età che avevamo noi allora, dobbiamo saper dire se i “chicchi di grano” sono diventati pianta e hanno donato i loro frutti alla città. Insomma, agli studenti che ora frequentano la scuola e l’università cosa ci sentiamo di raccontare? Che nulla è cambiato rispetto ai nostri tempi? Che chi sta dalla parte dei “buoni”, dalla parte dei tanti Biagio, Giuditta, Borsellino, Falcone e le altre vittime della mafia, è destinato a soccombere o comunque a condurre solitariamente la battaglia contro i mulini a vento?
Ebbene, sono convinto che la mia generazione, pur tra molte delusioni e precoci abbandoni, ha al proprio arco qualche freccia da scoccare per tentare di evitare che i più giovani vengano contagiati da quell’inveterato riflesso pavloviano, tutto siculo, che ci porta troppo spesso a rimuovere il passato per avvalorare l’immutabilità di un presente sempre uguale a se stesso e dunque l’improbabilità di un futuro migliore per il quale impegnarsi. E credo che in questo momento difficile e complesso che stanno vivendo i nostri ragazzi, orfani inconsapevoli di pensieri “forti” e incolpevolmente chiamati a fare i conti con un contesto di crisi generale in cui gli stessi adulti fanno fatica ad avere fiducia in qualcuno o qualcosa, può essere utile dir lo loro che “no, non è vero che tutto è come prima e che anche voi siete condannati vivere eternamente l’esistente”.
Non si tratta di spacciare ottimismo paternalistico a buon mercato, ma di fatti che vanno messi uno dietro l’altro, confrontando con l’attualità le istantanee scattate da Roberto Puglisi che restituiscono molto bene emozioni e situazioni che si aggrovigliavano in quei giorni. Gli studenti negli anni ’80 difendevano i giudici in una città in buona parte silente, se non collusa con la mafia sia ai piani alti dei salotti “bene” sia tra la popolazione delle borgate? Adesso possiamo dire che non è più così. Il consenso socialmente trasversale di cui ha goduto cosa nostra fin dagli albori si è eroso grandemente e l’organizzazione stenta pure ad arruolare personale criminale all’altezza della situazione. Nelle celle, pur affollate, dell’aula bunker mancavano i capi e i capi dei capi? Adesso sono (quasi) tutti a marcire in galera. Tentano di metterci paura minacciando i magistrati “simbolo” della lotta alla mafia? Lungi dal lasciarli soli come spesso accaduto nel passato, lo Stato predispone livelli di sicurezza e protezione mai raggiunti prima.
Tutto bene, allora? Certamente no e non occorre davvero elencare i mille problemi e le mille incertezze che ci tormentano per il solo fatto di vivere nella nostra terra. Possiamo, però, almeno dire ai nostri ragazzi che ora sono i mafiosi e i loro amici che vivono in solitudine, braccati dallo Stato e disprezzati dalla stragrande maggioranza dei cittadini?