PALERMO – Qualcuno ci ha rimesso la pelle. Non è riuscito a resistere alla violenza dei barbari. Nulla ha potuto contro quel fucile usato come una mazza per colpirlo al cranio, fino a sfondarglielo. Sotto gli occhi della sorella.
Entrare nell’ex base militare di Sabrata, città della Libia, era come finire all’inferno. La “Casa bianca”, così la chiamano le vittime, è un campo di concentramento dei giorni nostri. Lo gestiscono una banda di nigeriani, guidati da un libico soprannominato il generale. Tre di loro sono stati fermati dalla polizia di Agrigento su richiesta dei pubblici ministeri di Palermo Gaspare Spedale, Renza Cescon, Claudio Camilleri, coordinati dal sostituto procuratore Calogero Ferrara che guida il gruppo “tratta e immigrazione” della procura palermitana.
Nell’infermo di Sabratah finiscono i migranti che giungono sulle coste libiche nella speranza di salire su un barcone e raggiungere l’Italia. Vengono rapiti e segregati: 500 persone in un capannone. Per essere liberati devono pagare un riscatto, oltre alle spese la traversata. Salire su una carretta costa fino a duemila euro. Prima, però, devono riuscire a sopravvivere. Gli uomini vengono massacrati a botte, le donne violentate, i corpi cosparsi di benzina e dati alle fiamme.
Alcuni portano ancora i segni delle violenze. Impossibile nascondere le cicatrici. Le mutilazioni permanenti devono essere fotografate dagli investigatori. Gli scatti dell’orrore riempono i fascicoli delle indagini.
Lo scorso 15 aprile 443 persone sono sbarcate a Lampedusa, trasportate dalla nave Fiorillo della Guardia costiera italiana. A bordo c’erano gli uomini e le donne sopravvissute all’inferno. Hanno raccontato la loro storia. Hanno individuato i carcerieri che si erano mescolati agli altri migranti. Spalla a spalla con le vittime delle loro violenze.