All’apice della tensione, la violinista di terza fila si è sciolta in lacrime. Il maestro Uto Ughi stava suonando una magnifica rapsodia. Con le parole.
Aveva appena deposto l’archetto per lanciarsi in una nobile difesa dell’Orchestra sinfonica siciliana e dei suoi magnifici professori. La rapsodia si era allargata in una sonata e poi in una sinfonia. Dal precariato dei musicisti a quello di tutti. Dal pane che manca all’arte al companatico che latita nel quotidiano. Difficile scegliere il momento più intenso della serata di ieri, tra le proteste, i sentieri complicati di un ente in faticosa risalita e gli arpeggi del maestro Ughi e delle sue dita fatate. L’esecuzione del sesto concerto di Beethoven con successivo bis paganiniano ha inchiodato la platea alle sedie, in uno scintillio inarrivabile di arcate sonore. Le parole del solista in difesa di un mondo più umano – con le note, il lavoro e i sorrisi – hanno raddoppiato quell’incanto, rendendolo al tempo stesso più fondo e scuro. Hanno denudato il miracolo di un minuto prima. Lo hanno inverato. Ughi ha lanciato un ponte sospeso tra la musica e la vita: pane e si minore. E lo ha attraversato con grazia, nonostante gli abissi e le punte aguzze al suolo.
Le lacrime del violino sono sgorgate spontanee, anche se non sapevano bene a quale pentagramma ispirarsi e su quale orecchio ricadere. Noi che le abbiamo viste, per sempre le conserveremo nella cassa armonica dei riflessi più preziosi.