I vecchi del quartiere sono seduti attorno a un tavolino di legno. Cinque di loro, intenti a giocare a briscola, tengono le carte in mano e gli occhi fissi sul ripiano, solcato da tante partite. Improvvisamente uno di loro si alza di scatto e, ciecato dalla rabbia, getta le carte che si sparpagliano disordinatamente: ‹‹A comu si cumminatu?›› la camicia a righe sbottonata lascia intravedere un pesante crocifisso d’oro, adagiato su un petto bruciato dal sole e ricoperto di peli bianchi.
‹‹Ma cchi è ca voi, cosa vuoi dalla vita mia? – risponde un altro giocatore che biascica a causa della dentiera – non sono u to cumpagnu, non l’ho io il re di coppe che chiamasti››.
Un terzo personaggio, dai piccoli occhi neri, guarda la scena in cagnesco: le braccia muscolose e le enormi mani callose non lasciano dubbi su una giovinezza trascorsa a lavorare sodo.
‹‹Voialtri non siete cosa di giocare alle carte. Aviti stari a casa!›› batte violentemente i pugni sul tavolo, spaventando gli altri uomini seduti. Si erge di scatto e spinge indietro la pesante sedia di legno che frana rumorosamente al suolo. I compagni di gioco si scostano gettando indietro, a peso morto, le loro gobbe che fermano la corsa al contatto con lo schienale della seduta. Adesso l’uomo gesticola, si agita, urla, abbaia frasi incomprensibili e tende il dito indice della mano destra ritto verso il cielo, mentre i suoi occhietti neri ruotano nervosamente ora a destra e ora a sinistra; ora di nuovo a destra e poi al tavolo dove le carte sono ormai sparse senza un ordine preciso.
La voce di mia moglie mi richiama all’attenzione: sta leggendo ad alta voce una guida della città, premurosa come è di indottrinarmi sui monumenti che stiamo guardando. Io vorrei voltarmi per vedere l’esito della disputa, ma me ne guardo bene, spaventato dalle conseguenze che quel gesto avrebbe scatenato e atterrito dalla possibilità di deludere Annette e la sua concezione di turismo, molto diversa dalla mia. Annette osserva i monumenti, ammira le chiese, si sofferma sui monasteri e indugia nelle biblioteche; io invece potrei star seduto per ore dentro un bar o su un marciapiede, appoggiato a un muro o ritto in piedi, ad osservare la gente per carpirne tradizioni e modi di vivere dalle espressioni degli occhi, dalle acconciature, dal modo di vestirsi o da quello di portare l’ombrello; o ancora dalla camminata e dalla disinvoltura con cui porta la macchina.
Il sole è una palla infuocata che brucia qualsiasi nuvola tenti di coprirlo. La piazza, con un basolato scivoloso a farne da pavimentazione, si apre davanti ai miei occhi come una mezzaluna: edifici storici ne disegnano l’arco, mentre di fronte – all’apice di una maestosa scalinata – troneggia una massiccia chiesa incompleta. Annette sta dirigendosi decisa verso l’ingresso, quando viene fermata dalla mia voce che la invita a prendere un caffè.
Uno stuolo di ragazzi occupa ogni metro quadro del bar. Sono giovani, spensierati, felici per una giornata di sole. Un’occhiata più attenta mi permette di notare come su nessuna ragazza si intravedano le bretelle del costume sotto la maglietta e come nessun ragazzo indossi ciabatte da mare.
‹‹Non andate al mare in una giornata come questa?›› chiedo sorprendendoli con il mio accento nordico.
‹‹Purtroppo la nostra estate non è ancora iniziata – mi risponde un coro di voci – oggi abbiamo un esame. La nostra università è proprio qui. Perché non entrate a dare un’occhiata?!››.
‹‹Sì – disse uno, con la barba macchiata da un sottile velo di zucchero – è un ex monastero dei benedettini››.
‹‹Hai visto tesoro?! Ora sappiamo che accanto alla chiesa c’è un vecchio monastero›› dico entusiasta ad Annette che, però, non sembra affatto sorpresa della cosa; mi guarda senza rispondere e tiene in mano la guida della città, chiusa, mostrandomela come per dire “io lo sapevo già. Se mi avessi ascoltata, anziché guardare i vecchi giocare a carte, lo avresti saputo anche tu”.
Abbasso lo sguardo, imbarazzato dalla figura barbina appena fatta e saluto i ragazzi, augurando loro un in bocca al lupo. Pagato il cannolo alla ricotta e il caffè raggiungo Annette che era già uscita in strada. L’ex monastero, ora sede delle Facoltà di lettere, filosofia, lingue e letterature straniere, ci accoglie con un gran cortile esterno dove studenti di ogni tipo si incontrano, si consolano, si congratulano. Vorrei poter parlare con ognuno di loro, ma Annette mi strattona per la maglietta, tirandomi dietro di sé.
La monumentale scalinata di marmo, illuminata dalle grandi finestre lungo il muro e posta subito dopo l’ingresso austero, accende un interesse fin lì sconosciuto. Vedo Annette, talmente intontita da quella bellezza, da dimenticarsi di consultare la sua “bibbia” alla ricerca di spiegazioni inerenti alla struttura o alla storia dell’edificio. Io sono una palla impazzita, che rimbalza di muro in muro, alla ricerca di qualcuno (chiunque) che dia risposta alle mie mille domande e curiosità.
Preso dallo sconforto per l’assenza di un addetto, messo lì con l’unico compito di accogliere i turisti, inizio a passeggiare per i corridoi alla ricerca di un volto rilassato a cui chiedere informazioni. Le celle che in passato costituivano il silenzioso ricovero per i monaci, adesso ospitano la frenetica attività di due, tre, quattro, sei professori; l’incredibile caos di studenti che, agitati per l’esame, stazionano davanti all’ingresso, mi impedisce di sbirciare all’interno delle stanze, mentre lì dove non c’è nessuno, le porte sono chiuse senza che ci sia anima viva, al di là di queste, che risponda al mio bussare.
I miei passi si susseguono nel sobrio pavimento che, di tanto in tanto, per mezzo di aperture vitree, fa notare gli antichi resti della precedente struttura; i miei occhi, guardando fuori dalle finestre, si posano sugli antichi chiostri circondati da giardini incontaminati, risalenti al 1600. La presenza di una biblioteca, con i suoi infiniti volumi e l’odore di antico, mi fa sperare di trovare qualcuno disposto a saziare la mia sete di conoscenza. Macché! la solita scrivania vuota che sembra guardarmi e dirmi che lei mi aiuterebbe volentieri se solo potesse parlare, che lei sarebbe un ottimo tavolo da lavoro se solo qualcuno si decidesse ad utilizzarla. Rapito dal folle pensiero di questo inverosimile dialogo, decido di sedermi sulla sedia vuota accontentando così la scrivania e, probabilmente, anche la mia voglia di respirare sapere
‹‹Che cerca lei?›› finalmente era arrivato qualcuno che poteva aiutarmi.
‹‹Salve, scusi se mi sono accomodato. Volevo solo chiederle se può, lei, raccontarmi del monastero o indicarmi qualcuno che possa farlo… ››
‹‹Lei ha chiesto all’ingresso?›› adesso il suo tono è cambiato: non è più quello furente di chi, assentatosi per “pochi istanti”, trova il suo posto di riposo quotidiano occupato da un estraneo.
‹‹Certo – rispondo io – ma ho trovato una sedia vuota…così come era vuota questa, prima che mi ci sedessi io››.
Lo vedo fare uno scatto in avanti e un battere veloce di ciglia in rapida successione, come se si fosse forzatamente trattenuto dal buttarmi fuori a calci in culo.
‹‹Guardi – ora il suo tono è sgarbato – io non mi occupo di queste cose. Provi a chiedere in giro. Ora mi scusi, ma devo lavorare››.
“Mi accompagna” alla porta e, prima che questa si chiuda alle mie spalle, ho il tempo di ammirarlo mentre si stravacca sulla sedia e apre il giornale alle pagine sportive.
Deluso, esco dallo stesso ingresso da cui ero entrato. Annette è in giro con il suo libro aperto: alla fine – penso amaramente – come sempre, saprà più cose di me. Mi siedo su una panchina del cortile ad osservare la struttura dall’esterno; un ragazzo si avvicina con fare curioso e amichevole. Ha i capelli ricci e la barba incolta.
‹‹Sei un turista, vero?›› mi domanda offrendomi una sigaretta.
‹‹Proprio così. Lo si nota così tanto?›› rispondo ringraziando per la sigaretta.
‹‹No, è che ti ho sentito parlare con quel tizio alla biblioteca››.
Tira una boccata di fumo e comincia a raccontarmi del monastero.
Con la testa piena di nozioni, che sono sicuro di dimenticare non appena sarò costretto a scuotere il capo, vengo raggiunto da Annette e dal suo desiderio di cassata alla ricotta. Dopo aver ringraziato il riccio, la prendo per mano e la conduco al bar: lo stesso della mattina. Dentro trovo gli stessi ragazzi di qualche ora prima: qualcuno gioisce, qualcun altro sorride amaro, digrignando i denti. Approfitto della distrazione degli occhi affamati di Annette per informarmi sui loro esami.
‹‹Stiamo aspettando una nostra collega – risponde una ragazza tutto pepe e dalla voce stridula – si chiama Laura…››.
A un tratto un rumore intenso, sordo. Uno sparo. Sento quasi distrattamente lo stridere dei freni di uno scooter e poi, improvvisamente, uno strano silenzio che si diffonde nell’aria.
Le risate si trasformano in panico. La gente intorno a me reagisce ai colpi come può e come sa: c’è chi indietreggia, chi batte confusamente le ciglia, chi si butta in terra, chi si muove confusamente senza spostarsi,chi si accartoccia su sé stesso, chi si protegge dietro qualcun altro, chi, come me, rimane impietrito ad osservare la scena con occhi di ghiaccio e cuore immobile.
Pochi istanti e il bar si svuota. La gente che c’era dentro si è precipitata in strada e ora immobile guarda una ragazza accasciata in terra e il sangue che, rapido, macchia il basolato.
Tra l’immobilità generale solo un ragazzo si dimena, come fa una piccola nuvola trascinata dal vento nella statica immensità di un cielo terso.
Il ragazzo si accovaccia sulla giovane ferita e urla.
‹‹Laura, Laura svegliati! Apri gli occhi Laura!›› urla e piange.
Riesco a svegliarmi dal mio torpore e, come un falco che avvista la preda, afferro Annette per portarla via da lì. Via dalle urla di paura e terrore; via dal fuggi fuggi generale come se tutti fossero colpevoli di quella atrocità; via dai vecchi che cinque metri più in là continuano a giocare a carte come se nulla fosse accaduto.