PALERMO – L’ultimo caso riguarda Giulia Adamo, ex capogruppo dell’Udc all’assemblea regionale siciliana, condannata in appello dalla Corte de Conti a restituire 181 mila euro per le cosiddette “spese pazze” della politica.
Condannata per danno erariale lo scorso 29 dicembre dopo essere stata assolta nel processo penale con la formula “perché il fatto non sussiste”. Almeno per una parte delle spese, quelle su cui si è ora pronunciata la Corte dei Conti, visto che per altre somme è stata rinviata a giudizio anche nel penale. Ciò che appare come un contrasto giuridico in realtà è frutto dello scorrere si binari diversi della giustizia ordinaria e di quella contabile. Una cosa è il dolo necessario affinché si possa contestare in sede penale il peculato, un’altra la colpa grave sufficiente per una condanna contabile. Il dolo nel caso del peculato scatta perché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropria di soldi o beni altrui ben conoscendo le conseguenze delle proprie azioni. Insomma, studia un piano e le mette in atto. La colpa, invece, è contestabile quando gli effetti delle proprie azioni non sono voluti, ma sono frutto di imprudenza, negligenza, imperizia.
In soldoni, è la mala gestio amministrativa che i giudici contabili devono valutare. E così, come era già avvenuto per Francesco Musotto e Antonello Cracolici – solo per fare due esempi di condanne già definitive per le “spese pazze” – anche per Giulia Adamo è arrivata la condanna definitiva a restituire i soldi dei siciliani utilizzati senza alcuna finalità politica e istituzionale.
La prima cosa che Adamo ha cercato di fare pesare a sua discolpa è stata proprio la sentenza di non luogo a procedere con cui il giudice per le indagini preliminari l’ha parzialmente scagionata in sede penale. Basta leggere la motivazione del collegio contabile di secondo grado, presieduto da Giovanni Coppola, per avere chiaro il doppio binario di cui sopra: “Anche nel caso in cui il procedimento contabile ha come oggetto gli stessi fatti esaminati dal giudice penale, va rilevato che l’istituto della responsabilità amministrativa trova fondamento normativo e parametri di valutazione delle condotte dei soggetti sottoposti alla giurisdizione contabile sostanzialmente differenti da quelli utilizzati in sede penale e, per tale ragione, può addivenire a conclusioni diverse in ordine ai medesimi fatti accertati in sede di giudizio penale”. Ed ancora: “Lo sviamento delle risorse pubbliche, unitamente alla responsabilità dei soggetti cui tale sviamento sia imputabile, qualifica in termini di danno erariale il pregiudizio conseguente alla mancata dimostrazione della corrispondenza e coerenza dell’utilizzo di esse alle finalità istituzionali prestabilite e, di conseguenza, ricade nell’ambito di cognizione della Corte dei conti, quale giudice naturale costituzionalmente deputato alla tutela del pubblico erario”.
Tranciante l’ultimo passaggio sulla questione: “Nell’ambito del procedimento penale, risulta essere stato contestato il reato di peculato, fattispecie che non può ritenersi sovrapponibile alla contestazione di responsabilità amministrativa in esame, rispetto alla quale, in termini di valutazione dell’elemento soggettivo, è sufficiente per la configurazione dell’illecito contabile, la semplice colpa grave, a prescindere dalla condotta dolosa richiesta per il reato di peculato”.
Chissà se questa sentenza contabile, l’ennesima, servirà a modificare l’abitudine tutta siciliana di ritenersi “salvi” quando si viene scagionati da un processo penale. L’approccio giuridico-culturale imperante in Sicilia è stato finora quello di considerare una condanna contabile come il male minore. Minore perché non lascia macchie tali da obbligare chicchessia a fare una passo indietro. Eppure imprudenza, negligenza e imperizia dovrebbero essere “qualità” bandite quando si amministra la cosa pubblica.
Un tema sollevato da alcune forze politiche nei giorni scorsi quando si è appresa la nominadi Patrizia Monterosso alla direzione della fondazione Federico II. Monterosso è stata condannata con sentenza definitiva per avere provocato un danno erariale da un milione 300 mila euro nella malandata formazione professionale. La sua nomina a segretario generale ha provocato due inchieste, una penale e una contabile. Le indagini contabili, fatto salvo il sacrosanto principio di non colpevolezza, sono la spia di una gestione quantomeno lacunosa. L’elenco degli indagati, vista la lunghezza, è preoccupante. A cominciare dall’ex governatore siciliano Rosario Crocetta che se le contestazioni della Corte dei Conti dovessero reggere tutte fino a sentenza dovrebbe restituire 14 milioni di euro. Una di queste la condivide con Antonio Ingroia che il politico di Gela ha voluto alla guida di Sicilia e-Servizi. E si è ripresentato di nuovo il doppio binario. Le assunzioni nella ex partecipata regionale hanno fatto scattare un’inchiesta penale, archiviata, e una contabile ancora in piedi che vede coinvolti pure gli ex assessori Nino Bartolotta, Esterina Bonafede, Dario Cartabellotta, Nelli Scilabra, Michela Stancheris, Patrizia Valenti, oltre a burocrati e funzionari.