PALERMO – Ci risiamo. Il copione del braccio di ferro tra Ars e presidente della Regione è tornato in scena. Per la terza legislatura di fila, i rapporti tra Palazzo d’Orleans e Palazzo dei Normanni si presentano complicati. E ancora una volta torna a essere ventilata l’ipotesi di chiusura anticipata della legislatura, un gridare al lupo a cui i palazzi del potere siciliano sono abbastanza abituati. E con essa, torna la dialettica del presidente eletto per cambiare la Sicilia ma imbrigliato dai giochi e giochini dei deputati, un altro evergreen della politica nostrana dell’ultimo decennio.
“Non sarò ostaggio di nessuno, né io né il mio governo”, ha tuonato in Aula, accalorandosi alquanto, Nello Musumeci questa settimana. Solo pochi giorni dopo aver lanciato un altro messaggio: “Questo deve essere il governo delle riforme, con quattro-cinque priorità, tra cui la modifica della legge elettorale. Poi, se vogliamo, possiamo anche discutere di andare a votare, io non sono attaccato allo sgabello. Come ho sempre detto sono il presidente della semina e non della raccolta”.
Al voto, al voto. Ritornello già sentito. Musumeci non è il primo presidente senza maggioranza. Non ce l’aveva da principio nemmeno Rosario Crocetta, la costruì pezzo a pezzo con un abbondante transito da destra, in buona parte con la regia di quel sapiente conoscitore dell’Aula che era Lino Leanza. Aveva una super-maggioranza invece Raffaele Lombardo. Che però ruppe con un pezzo dei suoi compagni di viaggio, trovandone altri, in quel famoso ribaltone che sovvertì l’andazzo della politica siciliana. Legislature complicate, le ultime due. Complicate come si annuncia questa, con un governo senza maggioranza, costretto a patire sin dalle primissime battute.
E quando la legislatura si fa difficile, i toni tra presidente e deputati si alzano, inevitabilmente. E magari arriva la minaccia di dimissioni, arma sempre carica in mano al governatore, che se lascia manda a casa tutti i deputati. Ma si sa, l’arma seppure carica, quando non viene mai usata, perde un po’ del suo potere di deterrenza. Crocetta ad esempio ventilò la minaccia di dimissioni ai suoi alleati – ma mai in Aula o in dichiarazioni ufficiali – quando si dibatteva sulla nascita del “governo politico” nel 2014. In compenso, il governatore gelese che visse diversi momenti di attrito col Parlamento, quando qualcuno parlò di sue possibili dimissioni l’anno dopo, mandò un segnale di tutt’altro genere al Parlamento: “Le dimissioni? È un problema che non mi pongo. Se l’Ars non fa una riforma perché mi dovrei dimettere io? E comunque, per eliminarmi devono usare il bazooka”.
Raffaele Lombardo minacciò le dimissioni nel 2011, quando infiammava la polemica per la sua vicenda giudiziaria, agli albori. Il presidente di Grammichele aveva usato toni ultimativi già alla fine del 2010, sfidando l’Ars a presentare una mozione di sfiducia. Una sfida che poi il governatore ripeté altre volte nel corso della sua complicata navigazione a Palazzo d’Orleans.
Musumeci, invece, cerca la strada del dialogo. Anche se alla prima difficoltà perde le staffe e striglia in Aula l’opposizione quasi imputandole la responsabilità del pantano che sta invece nella fragilità della sua coalizione rattoppata alla bell’e meglio per vincere le elezioni. Il presidente ha teso la mano e dall’altra parte qualche volenteroso, nella fattispecie Sicilia Futura, s’è subito affrettato a stringerla. È solo l’inizio, la legislatura è lunga e le sue dinamiche oggi sono ancora difficilmente prevedibili. I fiori del dialogo sbocceranno o si tornerà al copione trito e ritrito del braccio di ferro e dell’al lupo al lupo della fine anticipata della legislatura? È ancora presto per dirlo.