L’articolo di Eugenia Nicolosi sulla Cuba, o Cubba, ha suscitato un rovente vespaio di recriminazioni reciproche. Come una lama nel burro friabile di un corpo in dissolvenza. Dopo il taglio, ognuno dei lettori è stato sbalzato dal cavallo delle sue certezze e ha lottato a piedi, avvinghiato alla sua trincea. Chi detesta una tipologia di palermitano – chissà se più metaforica o reale – ha reagito con fendenti di soddisfazione. Finalmente chiude la Cubba. Chiude il tempio del fighettismo a cui menti politicamente più raffinate attribuiscono il degrado generale. Perché il passaggio da quei luoghi a una certa forma di politica vacua e fighetta è istintivo, ancorché plausibile.
Gli altri, gli appartenenti al cavalierato del cocktail, si sono sentiti nudi sotto un riflettore, ma forse anche spogliati ingiustamente. Come dire: c’è dell’altro, non solo i maschi tristi dell’evo contemporaneo e le femmine tigrate da salotto. E hanno difeso un posto che li lega sentimentalmente a un’esperienza, a un odore, a un bacio. Un castello della memoria preziosa, non solo il crocevia di libagioni e narcisismo a tignitè.
Per quanto il destino di un ristorante possa apparire cosa lieve rispetto ai tempi da tregenda che viviamo, l’altissimo numero di letture e di commenti ci suggerisce che siamo davanti a una questione cruciale di identità. Un problema politico, nel senso della rappresentazione di una comunità con i suoi riti e con i suoi totem. E il punto focale si staglia sulla scena nitidissimo. La dimensione collettiva di Palermo è un ricordo lontano. Siamo divisi da noi stessi. Acquartierati in ridotte con una feritoia che ci consente di dardeggiare contro gli altri, il nemico, cittadini stranieri dentro le stesse mura.
Il bel pezzo di Eugenia ha avuto il merito maieutico di fare emergere dalla pancia ciò che era sepolto e inascoltato. La rassegnazione alla scomparsa della bellezza, l’inerzia della volontà, il livore fratricida, il fuoco che divampa tra le nostre mani e ci consuma senza che nessun medico ci consigli il rimedio. Palermo è questo. Un lacrimatoio, un cimitero, un campo di battaglia. Nessuno si salva. Pensate, però, anche alla Cubba leggono poesie tristi. Anche alla Cubba piangono.