Il Senato ha da poco approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata di attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Quest’ultimo, introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V, consente alle Regioni che ne fanno richiesta, previa intesa con lo Stato, di richiedere maggiore autonomia su ulteriori materie, oltre a quelle già loro attribuite per dettato costituzionale, per realizzare una forma di autonomia più adeguata ai loro territori. Le nuove funzioni verrebbero finanziate con la compartecipazione al gettito di tributi erariali, maturato nel territorio regionale e, dunque, sostanzialmente dallo Stato.
I livelli essenziali delle prestazioni
Ai fini del mantenimento dell’unità sociale e civile del Paese il disegno di legge prevede la individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), i quali costituiscono il nucleo di prestazioni da erogare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Si introduce, dunque, una strada per la differenziazione ma a condizione che si rimanga nel contesto di uno Stato unitario: è indispensabile, cioè, che venga comunque assicurato nelle altre Regioni un livello minimo di tutela dei diritti fondamentali, quali il diritto alla salute, all’istruzione, all’assistenza sociale.
Il fondamento del regionalismo differenziato è rappresentato dal fatto che le differenti caratteristiche dei territori italiani (fisiche, economiche, demografiche, sociali, culturali) richiedono interventi differenziati e che le Regioni dispongano degli strumenti per attuarli. E ciò nella prospettiva che una maggiore autonomia decisionale e gestionale consentirebbe di affrancarsi dalla lentezza delle amministrazioni centrali, aumentando la qualità dei servizi.
Da più parti, però, sono stati sollevati dubbi sulla reale possibilità di perseguire tali obiettivi. Il più radicale attiene essenzialmente alla contrarietà dell’autonomia differenziata al principio dell’uniformità dei diritti e dei servizi in ogni parte del Paese, paventandosi la violazione del principio dell’art. 5 della Costituzione dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. Si teme, inoltre, che l’autonomia possa comportare delle sperequazioni incolmabili tra il Nord ed il Sud della nazione portando ad un Nord sempre più florido e ad un Sud sempre più emarginato. Dato che la maggior parte delle risorse fiscali riscosse nelle Regioni ad autonomia differenziata rimarrebbero nella disponibilità dei rispettivi territori, se il Nord dovesse (come è probabile) essere più sollecito nella richiesta di maggiori spazi di autonomia, si assisterebbe alla devoluzione di maggiori risorse (sottratte alla fiscalità generale) a Regioni già ricche privilegiando il loro rilancio rispetto a quello dell’economia nazionale nella sua interezza.
Il secolare divario tra Nord e Sud
Il divario tra Nord e Sud, lo sappiamo, esiste già a “Costituzione invariata”. Esso ha radici secolari e divenne più evidente dopo l’Unità d’Italia. “Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti”, come efficacemente ebbe ad affermare Tomasi di Lampedusa. Se ne accorsero presto due giovani studiosi, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, che nel 1876 da Roma intrapresero un viaggio alla volta della Sicilia. Pur incantati dalle bellezze indiscusse, le stesse che un secolo prima meravigliarono Goethe che definì la Sicilia “la chiave di tutto”, essi, nel loro libro-inchiesta, indicarono le cause della sua decadenza: la corruzione dei politici locali, l’estrema povertà, l’irrazionale politica fiscale che colpiva solo i meno abbienti, l’analfabetismo dilagante, il clientelismo, il cancro della mafia insinuato in ogni piega del tessuto sociale ed economico, la piaga del lavoro minorile. Problemi endemici che purtroppo ancora oggi persistono.
Dal reddito alle infrastrutture: troppe differenze
Tutto ciò serve a comprendere le ragioni del ritardo ma di certo non a giustificare il permanere di una situazione di arretratezza. Ancora oggi ad un Nord più ricco, più avanzato e con servizi più efficienti si contrappone un Sud più povero e meno sviluppato. Il reddito pro capite è mediamente il doppio al Nord. Le infrastrutture sono efficienti al Nord e da terzo mondo al Sud. La mobilità sanitaria passiva al Sud raggiunge soglie altissime. Recenti risultati dei test Invalsi dimostrano la persistenza di un divario anche culturale tra il Nord ed il Sud. Eppure, l’istruzione fino ad oggi è stata funzione gestita dallo Stato, pur nelle sue articolazioni periferiche, con regole analoghe su tutto il territorio nazionale. Ciononostante, emerge egualmente la differenza di qualità del sistema tra le varie Regioni.
Il ruolo dello Stato
Quindi: più Stato e meno autonomie non comporta automaticamente uguaglianza tra i diversi territori. Per ridurre i divari territoriali e riattivare la crescita del Mezzogiorno lo Stato deve avere un ruolo di preminenza a salvaguardia delle invalicabili ragioni di unitarietà e coesione consacrate nella nostra Costituzione, pur conciliandole con le richieste di differenziazione delle Regioni. È necessario inoltre investire al Sud: già oggi vi sono in campo ingenti risorse per il suo rilancio. Il Pnrr individua nella riduzione del divario Nord-Sud una delle tre priorità trasversali alle Missioni. Per le grandi isole, inoltre, il riformato articolo 119 della Costituzione impegna lo Stato a promuovere le necessarie politiche per ridurre lo svantaggio causato dall’insularità e valorizzare tale specificità.
La rinascita del Sud parte dal… Sud
Ma se l’intervento dello Stato è imprescindibile, la rinascita del Sud deve ripartire dal Sud dove esistono competenze, energie morali e culturali per attuare un processo di sviluppo e di rinnovamento. La Sicilia, in particolare, ha dalla sua parte la leva potenzialmente dirompente della sua “specialità”, consacrata nella Costituzione e che è ben più pregnante della “autonomia differenziata” da riconoscere alle Regioni ordinarie in determinate materie. Finora non si è mai stati capaci di gestire in modo davvero efficiente l’autonomia. Anzi, i maggiori poteri che questa comporta si sono per lo più tradotti in maggiori sprechi; nel tempo si è rivelata più come esercizio di puro potere che come strumento di sviluppo. È arrivato il momento di dire basta e di mettere in campo le risorse indispensabili alla sua realizzazione, nella speranza che la “questione meridionale” possa venire studiata solo sui libri di storia e non costituire più una triste realtà. Ce la faremo?