"Borsellino ancora senza giustizia |Un'umiliazione per l'Italia intera" - Live Sicilia

“Borsellino ancora senza giustizia |Un’umiliazione per l’Italia intera”

Intervista a Claudio Fava. "Cosa nostra è cambiata, Istituzioni in ritardo".

commissione Antimafia in Sicilia
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PALERMO – Il ventiquattresimo anniversario della strage di via D’Amelio è l’occasione per la visita in Sicilia della commissiona nazionale Antimafia, che viene a Palermo e Trapani per l’occasione. In tempi non facili per l’antimafia, Claudio Fava, componente della commissione, ricorda la “sobrietà” di Paolo Borsellino e auspica il ritorno sul suo solco a una “antimafia delle letture minuscole”, lontana da “liturgie e pennacchi”.

Onorevole Fava, la commissione Antimafia arriva a Palermo per celebrare un martire che però è rimasto senza giustizia. È una sconfitta per le Istituzioni?

“È un’umiliazione per l’intera nazione. Per uno dei fatti criminali più gravi della storia della Repubblica arrivare a un quarto processo sempre in bilico su una verità precaria è una sconfitta per tutti. Ed è un dolore per i familiari. Non è l’assenza della giustizia, ma è l’assenza della verità, che è l’unica forma di sepoltura per i nostri morti. Questa è la violenza più grave di cui dobbiamo farci carico tutti anche perché quel processo è stato luogo di menzogne e depistaggi da manuale. Non è soltanto una giustizia incapace ma il tentativo di fornirci una verità manipolata. E lì la domanda è: per chi? Per conto di chi?”-

Anche questa una domanda senza risposta…

“Il processo sul depistaggio ha raccolto molte reticenze,. Chi ha organizzato la falsa testimonianza di un pentito lo ha fato non per gloria personale ma perché gli è stato chiesto. C’è una cellula malata che prima ha contribuito a isolare Borsellino e poi ha lavorato perché si contaminasse la verità”.

Cosa viene a fare in Sicilia la commissione Antimafia?

“A Palermo vedremo questore, comandanti delle forze dell’ordine, il prefetto, il procuratore della Repubblica, il presidente del Tribunale , e delle Misure di prevenzione, il sindaco Orlando. Stesso giro a Trapani dove in più vediamo anche il sindaco di Castelvetrano e forse il presidente della Corte d’assiste che ha scritto la sentenza su Rostagno. Delle due tappe quella che mi sembra più delicata è quella su Trapani, che ci riconsegna una città abbastanza simile a quella raccontata da I Siciliani 30 anni fa”.

Lei fa riferimento agli intrecci tra massoneria e potere?

“Quando scopri che in una città come Castelvetrano ci sono sei logge massoniche, 19 in tutta la provincia scopri un tracciato che lega insieme Regione, Sanità, imprenditoria. Dentro ci potrà essere gente che ha solo l’ambizione di riconoscersi in quel coté, in quella liturgia. Ma la storia passata di Trapani ci racconta di logge in cui c’era un pezzo della politica e un pezzo di cupola mafiosa. E quindi oggi la lettura che si dà a questi fatti è preoccupata di fronte a un centro di gestione parallelo delle cose e della spesa pubblica. Un centro legato ad altri interessi e nomenclature. Penso alla vicenda dell’ex vescovo di Trapani che coinvolge massoni, una delle piccole piccole malinconiche cose che ci consegna la storia recente di questa provincia”.

Il dilagare di centri decisionali alternativi a quelli istituzionali non è anche un indice della debolezza di questi ultimi?

“Penso di sì. Metà di questi addetti stanno nel mondo della Sanità, ed è chiaro che quello è un mondo che maneggia interessi, carriere, denari. Il tessuto connettivo della legalità è la limpidezza dei comportamenti. Nel momento in cui questi si fanno opachi ecco il sorgere di questi luoghi in cui si decide. Se tutto questo avviene in terra di mafia, poi, c’è la preoccupazione che tra le intese innominabili e gli interessi da tutelare ci sia anche Cosa nostra. Che è un attore economico e politico: se Matteo Messina Denaro sta in provincia di Trapani ci sta protetto non da miliziani ma da un ceto borghese a cui ha dato lustro e denari in questi anni”.

Insomma, è un ritorno alle origini della mafia, quelle della convivenza con il potere…

“Sì, assolutamente”.

Senta, ma l’antimafia e i suoi riti sono ancora vicini alla gente, dopo questi tempi assai difficili?

“Antimafia sta cominciando a diventare una parola, il suono di una parola. Che crea abitudine, persino noia. Oggi dire antimafia rischia di provocare solo uno spostamento d’aria. Un conto sono i fatti e i comportamenti, un altro conto è la rappresentazione eroica e autocelebrativa dell’antimafia e quest’ultima rischia di soppiantare l’altra. E così rischia di restare solo l’eco delle liturgie e la punta dei pennacchi”.

Non trova che in quest’ottica il richiamo alla figura di Paolo Borsellino sia quanto mai opportuna per la sua sobrietà e per la sua distanza dai riflettori?

“Sì, appunto, la sobrietà. Io sono convinto che si debba tornare a un’antimafia delle lettere minuscole. Al rigore e alla forza dei comportamenti, che non è una certa retorica, che forse andrebbe riconsiderata anche criticamente. Se andassimo a guardare non solo la morte dei martiri ma la qualità della loro vita, riscopriremmo i tratti di una grande sobrietà sul piano umano”.

Quando Padre Puglisi fu ucciso in tanti a Palermo non sapevano chi fosse…

“Sì, la modernità della mafia sta nel fatto che gli avversari non se li scelgono in base ai quarti di nobiltà che noi riconosciamo ma in base alla loro “pericolosità”, dal loro punto di vista”.

E la mafia è ancora pericolosa?

“Che si siano segni di crisi è inevitabile, di spallate lo Stato è riuscito a darne, la generazione dei vecchi notabili, a parte Messina Denaro, è tutta finita in carcere. I capi di vent’anni fa sono tutti in galera. C’è un cambio d passo anche sul piano relazionale delle mafie, non soltanto di Cosa nostra. È un rapporto di convenienza, si va dove c’è denaro, si costruiscono relazioni nel modo più trasversale. Non è un caso che i processi più importanti si stiano celebrando a Milano, Reggio Emilia e Roma. E noi alle volte siamo spiazzati perché convinti di cercare la vittima, quando qui invece ci sono relazioni di convenienza, senza vittime, penso alla vicenda di Brescello. E si scopre che in Brianza c’è un’imprenditoria che è diventata ‘alimento naturale’ per le mafie, senza che nessuno si senta vittima”.

E questo cambiamento, che poi sa di ritorno allo schema antico della mafia, prima della sfida allo Stato dei Corleonesi, spiazza le istituzioni?

“Sì, noi su questo siamo un po’ spiazzati. C’è una certa pigrizia a riconsiderare le nostre categorie. Questo riguarda anche la confisca dei beni. Noi abbiamo una cassa degli attrezzi che è fatta su misura per i Corleonesi, che investivano nei terreni, nella vigna, nella casa. Noi con questi attrezzi ora dobbiamo gestire la grande distribuzione, dove ci sono in ballo centinaia di posti di lavoro, e si resta in braghe di tela. Su questo siamo politicamente e culturalmente in ritardo”.

A che punto è la riforma su beni confiscati che si aspettava già alla fine dell’anno scorso?

“C’è un grande ritardo. Ci sono resistenze fortissime, bisognava tenere la sede a Reggio Calabria perché quello è il luogo degli amici del ministro. Ma servirebbe una struttura molto più attrezzata da tutti i punti di vista”.


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