Buon compleanno Palermo. Mancano quattordici giorni all’inizio della tua rinascita. Il 6 e il 7 maggio si vota. Come? Ah, sì. Sentiamo le voci dei palermitani. Le mettiamo in riga. Non cambierà niente. “Sututtistissi” (attaccato). Siamo maestri nel gioco di prestigio: non ce ne frega niente. Lo sfacelo è figlio della nostra ignavia. Ma siamo bravissimi a dare la colpa agli altri. Il 6 e il 7 maggio si avviano le pratiche di una ipotetica resurrezione. Ci sarà l’occasione di eleggere un nuovo sindaco. Il Noè che dovrà trarre l’arca – assai scafazzata – a riva, quando sarà concluso il diluvio. E in giro si avverte un biascicare, un bisbigliare deluso. Neanche una goccia di entusiasmo, tra pacchi di pasta e buoni di benzina. C’entra la qualità dei candidati? No. Ci stiamo preparando all’ennesimo fallimento, con la fabbricazione di un alibi prematuro.
Il primo cittadino che sarà rimarrà accerchiato a Palazzo delle Aquile senza nemmeno un cane come amico o genere di conforto. E quando sbaglierà, sotto gli occhi del suo popolo assente, verrà crocifisso. Il sindaco di Palermo non è chiamato a risolvere i problemi. Il suo ruolo è più mistico: desideriamo che inciampi e che prenda su di sé il peccato di una comunità mediocre, quando non scarsa. Il nostro voto è un espediente di astuzia sopraffina. Eleggiamo il peggiore, consapevolmente, per poi lamentarci con gusto. Dopo anni di bruttezza, la bellezza ci fa orrore. La rovina è la nostra patria.
Allora, buon compleanno Palermo e pace in terra ai palermitani di buona volontà. Il 6 e il 7 maggio si ricomincia a combattere con l’unico e vero mezzo imbattibile: il voto popolare. Dopo sarà comunque tragedia? Chissà. Ma non sarà impalpabile l’ultimo scatto a un minuto dal crollo. Lì vedremo la differenza tra chi non c’era e chi ha retto il muro fino alla fine. E sapremo i nomi di chi si è consegnato all’inferno, di chi ha pareggiato col purgatorio, di chi ha tentato l’acchianata al cielo.