Buon compleanno 'Paolo' | Borsellino e la memoria lacerata - Live Sicilia

Buon compleanno ‘Paolo’ | Borsellino e la memoria lacerata

Quale ricordo dobbiamo coltivare?

L'anniversario
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Paolo faceva. Paolo diceva. Paolo viveva. Paolo, purtroppo, moriva. E se provassimo a chiamarlo ‘dottore Borsellino’?

Perché non c’è niente di male a dare del tu a una cara memoria che fu un uomo onesto e coraggioso, purché l’intimità coltivi la sostanza, non la demagogia, o, addirittura, la finzione.

Invece quella reiterazione alla portata di chiunque – “Paolo, Paolo, Paolo” -, affinché chiunque se ne faccia scudo e rendita, si eguaglia alla confidenza che sconfina nella stonatura, alla scusa di chi acquista un sentimento popolare, all’ingrosso, per sminuzzarlo in retorica da rivendere al dettaglio, sullo scaffale delle emozioni che non prevedono l’accessorio di una coscienza critica.

Ed è così che ‘Paolo’ non somiglia per niente al ‘dottore Borsellino’: convocato nella parte del doppione appeso a un filo, in balia dell’altrui riscrittura e convenienza. Gli esempi, tra anniversari e commemorazioni – come si dice – non mancano.

Cronache dell’ultimo diciannove gennaio. Si ‘festeggia’ il compleanno del giudice Paolo Borsellino, al teatro di Santa Cecilia di Palermo. Sul palco, Salvatore Borsellino e una corte variegata di artisti, chiamati per rappresentazioni, musiche, letture di testi. In prima fila, il pm Nino Di Matteo, il riconfermando sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, l’avvocato Ugo Forello, candidato per il Movimento Cinque Stelle. Poca gente, all’inizio. Lentamente – racconta chi c’era – la sala si anima. Sono soprattutto gli uomini delle scorte a riempire i vuoti. La scaletta va avanti. Gli spettacoli, nello spettacolo, si succedono. Immancabilmente, si recita il salmo: “Paolo, Paolo, Paolo”, in platea e nel video che raccoglie l’evento organizzato dalle agende rosse. Immancabilmente, si modula il refrain compiuto della sovrapposizione teatrale.

Quando tanti ripetono: “Paolo diceva, Paolo viveva, Paolo moriva”, si avverte – piuttosto che lo sgocciolare delle lacrime che è ricongiunzione familiare di frammenti sparpagliati – l’eco di un mantra ossessivo  in cui il ‘dottore Borsellino’ è ormai la prefazione di quella demagogia da Trattativa, di quel sentimento popolare che alimenta il cinismo del sospetto perenne, di quella retorica da parasole, di quell’armamentario strumentale – esplicito o sottinteso – al servizio dell’antimafia dei complotti e delle carriere. Lui, ‘Paolo’, separato da se stesso e dalle sue relazioni più genuine, spogliato della sua figura discreta e nobile;  ridotto a marchio e santino, nella confidenza di un sacrificio che l’ha reso, involontariamente, disponibile.

Ma c’è Borsellino a Borsellino – ecco l’annotazione a margine – ognuno col suo percorso C’è chi, partendo dal dolore, ha costruito un teatro aperto alla comunità, pur vigilando contro le intrusioni non gradite: come hanno fatto i figli del magistrato assassinato da Cosa nostra che, di recente, hanno diffidato chicchessia dall’uso spregiudicato del nome del padre, proprio per calmierare l’abuso di contraffazioni.

C’è chi, come Salvatore, il fratello, è stato compartecipe dello stesso lutto, eppure è arrivato altrove. Per esempio, al canovaccio scritto e riscritto da una minoranza che cova spesso slogan e rabbia. E alla scena madre che conclude e definisce un’epoca di illusioni: il bacio sulle guance di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. L’abbraccio, con annesso coro di agende rosse, in via D’Amelio, luogo del martirio.

 

 

 

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