I figli di Borsellino "nella prigione di questa verità negata"

I figli di Borsellino “nella prigione di questa verità negata”

I legali dei familiari del giudice presentano ricorso contro la prescrizione e l'assoluzione dei poliziotti

PALERMO – La verità non c’è perché qualcuno l’ha nascosta. Ed è “come se mio padre fosse stato ucciso una seconda volta”, ha detto durante il processo Lucia Borsellino, uno dei figli del magistrato assassinato dalla mafia. L’avrebbero nascosta, la verità, i poliziotti artefici del depistaggio e i magistrati che hanno creduto alle tesi traballanti dei falsi pentiti.

Gli avvocati Vincenzo Greco e Fabio Trizzino presentano il ricorso contro la sentenza del Tribunale di Caltanissetta che ha dichiarato prescritta la posizione dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, e ha assolto nel merito il terzo agente, Michele Ribaudo.

I legali non hanno dubbi, “è emerso in via incontrovertibile nel primo grado del presente giudizio come le condotte di reato contestate ivi compresa l’aggravante di mafia (venendo meno è intervenuta la prescrizione), siano state consumate da tutti gli odierni imputati”.

“Terrificante scenario istituzionale”

I tre poliziotti facevano parte del pool investigativo “Falcone e Borsellino” guidato da Arnaldo La Barbera, oggi deceduto, considerato l’artefice del grande inganno. “Secondo la precisa e puntuale ricostruzione fatta nella impugnata sentenza, la finalità di inquinare ed indirizzare, sin dalle primissime battute, le indagini sulla strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992 – si legge nell’atto di appello – si è dipanata sullo sfondo di un terrificante scenario istituzionale in cui un ruolo parimenti centrale fu rivestito dal Procuratore Capo di Caltanissetta, Dott. Giovanni Tinebra”. Anche Tinebra è deceduto.

C’erano “ben precisi spunti di indagine che, già nell’immediato, deponevano per un ampliamento del quadro delle responsabilità e delle cointeressenze rispetto all’esecuzione della strage di via D’Amelio” ed invece “si scelse di improntare l’azione investigativa verso un basso profilo per impedire che scenari più ampi potessero squadernarsi e rivelarsi in tutta la loro possibile gravità”.

Depistaggio con “soggetti improponibili”

Era, però, sotto gli occhi di tutti che le indagini si stavano concentrando su “soggetti improponibili riconducibili alla famiglia della Guadagna”. Su tutti Vincenzo Scarantino, malacarne di borgata e falso pentito, il “pupo vestito” per confezionare la verità farlocca. Si scelse di non sviscerare “le ragioni che spinsero Salvatore Riina a compiere la strage di Via D’Amelio, secondo modalità e tempistiche davvero incomprensibili se avesse avuto veramente a cuore le sorti dell’intera organizzazione mafiosa”. Si scelse di non approfondire i “motivi che avevano indotto Borsellino ad affermare, poco dopo l’uccisione dell’onorevole Salvo Lima, che Riina e Provenzano erano come due pugili in lotta“.

“Mondo politico-istituzionale compromesso”

Si scelse la strada del “falso coinvolgimento di Gaetano Scotto ma soprattutto di Bruno Contrada” che “ha consentito di indirizzare e restringere verso i cosiddetti servizi deviati, il tema dei mandanti occulti ed esterni, di fatto precludendo che il fronte delle indagini si concentrasse ed indirizzasse anche verso quei soggetti diretta espressione di quel mondo politico-istituzionale ed imprenditoriale compromesso con il potere mafioso, parimenti ed urgentemente interessati all’eliminazione del giudice Paolo Borsellino”.

Nulla si fece per approfondire la situazione di “disagio e tensione” che caratterizzava il rapporto fra Borsellino e il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, tanto che Borsellino volle incontrare in maniera riservata l’allora colonnello Mario Mori ed il capitano Giuseppe De Donno del Ros.

“Nessuno può revocare in dubbio che Cosa Nostra stesse giovandosi dell’allontanamento della verità sulla strage di Via D’Amelio – scrivono i legali – al pari di quei soggetti esterni assai preoccupati dalle indagini che avrebbe voluto coltivare e valorizzare, prima di essere ucciso con i cinque agenti della scorta, il procuratore aggiunto Borsellino, anche riconducibili a settori del mondo delle istituzioni, per conto dei quali, il duo Arnaldo La Barbera-Mario Bò agì”.

Il depistaggio “ha avuto buon esito, considerato che lo stesso Gaspare Spatuzza non può andare oltre il segmento di cui è protagonista, per quanto importante e fondamentale per il successo dell’evento stragista. Il suo ruolo di esecutore, per quanto di spessore ed affidabile, non ha potuto consentire un allargamento del fronte delle acquisizioni probatorie sui tanti aspetti della strage non ancora conosciuti“. Come l’impossibilità di conoscere “il soggetto presente al garage di via Villasevaglios al momento del caricamento della 126 con l’esplosivo”.

Tuto questo ha inciso sulla vita dei familiari di Borsellino, la moglie Agnese Piraino Leto, e i figli Lucia, Manfredi e Fiammetta costretti a vivere “nella prigione di questa verità negata”. Hanno dedicato le loro energie “in una estenuante ricerca” che “ha finito per mortificare il diritto delle costituite parti civili di non soffrire e patire quotidianamente, nel diuturno richiamo a quei terribili momenti, non potendo gli stessi in alcun modo abdicare dalla coraggiosa opera di ricerca della verità“.

Impossibile elaborazione del lutto

Ad aggravare l’angoscia, “a rendere indubitabilmente difficile, se non impossibile, l’elaborazione del loro lutto, quale accettazione del sacrificio del loro congiunto, è la sensazione del tradimento da parte di alcuni funzionari infedeli di quello stesso Stato a cui Paolo Borsellino ha donato l’intera sua esistenza. La
sensazione di un tradimento rinnovato dai ‘non ricordo’ e da quel ‘tanto tempo è passato’ dietro al
quale si sono trincerati coloro che avrebbero dovuto dare un importante contributo su quello che è
accaduto. Al dolore per la incompleta verità sulla strage di Via D’Amelio si somma, dunque, il dolore per il gravissimo depistaggio nella convinzione che gli odierni imputati mai e poi mai sarebbero riusciti, con le loro condotte, ad attentare alla verità sui terribili fatti di Via D’Amelio se non aiutati dalla connivenza di altri rappresentanti delle Istituzioni, diretta o indiretta, consapevole o inconsapevole”.

Questo tradimento potrebbe divenire “più sopportabile soltanto qualora si affermi il principio che non possono sussistere, in un vero Stato di diritto, spazi di omertà ed impunità per chi è chiamato a ricoprire pubbliche funzioni”.


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