Ogni mattina, posteggio la macchina in uno slargo che a Palermo sta tra il mare e i rifiuti. E mi incammino. Attraverso una piazza che sembra tratta da un film neorealista sul dopoguerra. Case che sono spelonche. Facce che raccontano fame e violenza. Bambini che non sono bambini, ma entità che soffrono e si preparano a fare soffrire, quando finalmente diventeranno grandi, per pareggiare i conti col male. Di tanto in tanto, spuntano occhi di ragazza. Non la canzone. Occhi veri, che aspirano a una vita diversa. Sguardi di ragazzine per metà di fiele e per metà di zucchero. Camminando, arrivo al portone del Conservatorio. E lì mi fermo per rubare qualcosa della bellezza.
Ci sono pianoforti che incedono, avanti e indietro, sulle scale. Ci sono violini in cerca di un accordo. Davanti al portone, piccoli musicisti in erba discutono di spartiti e di incontri, passa qualche professore con la camicia a fantasia e la pettinatura alla Beethoven. Io mi fermo, prima di proseguire. Dalle finestre alte, scende una pioggia di suoni come benedizione.
Lì capisco perché, in fondo, amo Palermo. Perché ti permette sempre di prendere un po’ di ricchezza dalla sua miseria. Perché, in un vortice di disperazione, ci sono i ragazzi del Conservatorio che non rinunciano a impegnarsi sul pentagramma impossibile, a trarre armonia, intrecciando le dita sulla ferita aperta che noi siamo.
E’ pericoloso amare Palermo, se l’amore diventa assuefazione o rassegnazione. E’ uno sfregio amarla, Palermo, quando il sentimento viene sfruttato per alimentare la retorica. La prima cosa di cui dobbiamo sbarazzarci è la speranza a buon mercato, che non esiste, che è un inganno, eppure viene contrabbandata per distillare consenso, per costruire sul dolore la fotocopia di un’impostura. Spendere parole di affetto, mentendo, è un crimine contro il cuore, contro l’intelletto. Siamo stati rovinati dalle promesse mancate, dagli impegni solenni che abbiamo preso con noi stessi e non siamo riusciti a mantenere. La seconda spina conficcata da togliere, per strapparla alla corona di una città massacrata, è l’odio.
E qui è più difficile liberarsi. Odiamo Palermo per la sua damnatio, per la sua condanna a essere Palermo, per il palconcenico immutabile del suo orrore. Perché è sporca, vastasa, male amministrata da anni. Perché non cambia mai pelle, non offre mai una mano tesa. Odiamo Palermo e noi stessi per la bugia della luce in fondo al tunnel. Affondiamo nella palude e continuiamo a dire che forse, un giorno… Continuiamo a pensare che basti un tramonto sul Politeama, un bagno ottobrino a Mondello, per risarcirci di tutte le occasioni perdute. Questa è la nostra condanna. Doppia. Odiamo, con un accanimento senza riscatto, per reati contro la bellezza da cui ci sentiamo assolti, anche se siamo colpevoli. Amiamo Palermo in qualche pezzo, in poche porzioni di senso. Pensiamo che basti un cucchiaino di meraviglia per guarirci dalla malattia.
Ma non amiamo Palermo come vorremmo, come dovremmo. Nella santità delle formiche che, ogni giorno, la tengono in piedi con pazienza. Non la amiamo abbastanza nel popolo minoritario che la sorregge, la accudisce, la consola. Ai minuscoli santi patroni, non ai commercianti di elisir d’amore, dovremmo mostrare tenerezza e gratitudine.
Io, per esempio, sono grato alle anime del Conservatorio, che mi ricordano ogni mattina la mia gioia.
E mi ricordano che posso essere felice, quando mi fermo sotto una finestra alta, aspettando la pioggia.
Ps. E voi, se la amate, perché amate Palermo? Perché non scrivete una lettera.