C’era un corteo di passaggio l’altra mattina. Vibravano le stesse voci, gli stessi slogan, sotto le stesse bandiere. Erano, sì, le stesse bandiere, anche se mostravano colori diversi. Erano i vessilli del fallimento, del cinismo e del disimpegno.
Non occupate le scuole, ragazzi, non scendete in piazza, per quanto esistano ragioni per protestare. Non è questo il punto. Il senso del discorso risiede altrove. Anni e anni di cortei giovanili non hanno migliorato niente, casomai hanno apportato mutamenti in peggio, sacrificando la meritocrazia ai danni della retorica. Ci hanno resi più superficiali, ignoranti e stupidi. Non sarebbe l’ora di rinnovare la strada, di passare dalla vacuità del ritornello alla densità di una costruzione plausibile? Ogni giorno che trascorriamo senza pensare, senza leggere un libro, in un rito collettivo che ci lascia smemorati delle nostre individualità, è un altro capitolo di tempo perduto.
Eppure, voi sfilate di nuovo sotto le bandiere del fallimento, urlando cose che hanno suono, non significato. Nulla sapete, proprio come noi ‘grandi’. Né vi hanno mai detto che le domande sono destinate ad aumentare. Non conoscete le ragioni della vostra rabbia. Non proponete una riflessione credibile, non amate storia e cronaca, se non da orecchianti. Mischiate insieme, nell’esecrazione qualunquista che ignora le cause e non si preoccupa dell’approdo, l’edilizia scolastica, il presidente del Consiglio di turno, e un giovanilismo che è scimmiottamento di voi stessi, luogo comune. Presidiate gli istituti sempre un mese prima delle vacanze di Natale, togliendo forza a uno sciopero che non è rinuncia, è appropriazione di un recinto indebito da nullafacenti, esattamente il contrario dell’impegno. Balbettate filamenti di cose incomprensibili. Siete ignoranti. Alla fine del vostro calvario scolastico, nell’illusione degli spazi liberi, sarete dei perfetti esseri non-pensanti, degli automi pronti per l’uso che di voi vorrà fare il potere, Pinocchi-schiavi dell’omino di burro, quando calerà il sipario sul Paese dei balocchi.
Sbagliate a ripetizione, non applicando la memoria del precedente che non potrà soccorrervi. Al buio, di notte, nelle aule ‘okkupate’ tentate gli approcci imbarazzati di un amore che nessuno vi ha mai raccontato, preparandovi a un’esistenza da analfabeti sentimentali. Cercate riparo nella virtualità-social, ghetto della solitudine, specchio in cui tutti vogliono essere guardati, ma nessuno guarda. E siete, già adesso – anche se non ve ne rendete conto – strumenti ciechi del potere.
Siete vittime di compagni molto più furbi di voi, che marciano alla testa del serpentone, perché hanno già calcolato, dietro la parvenza dell’ingenuità, una redditizia carriera di ceto politico. Ve ne accorgerete fra qualche anno. Voi resterete bloccati nel caos, nella confusione che non trova ascolto. Loro, alcuni dei leader a cui affidate la vostra speranza di quasi bambini, saranno giù imbullonati tra le giunture di un’ottima poltrona, magari col benefit di un gustoso stipendio. E da lì continueranno, cinicamente, a riciclare suggestioni da ragni per acchiappare le mosche, per andare avanti nel gioco dell’oca della casta stracciona.
Vittime siete. Di troppi professori che non sanno insegnare, perché non hanno mai imparato. Dunque non insegnano, perfetti campioni del disimpegno. Non hanno mai letto una poesia di Giorgio Caproni o di Valerio Magrelli. Da studenti l’istruzione che praticavano si fermava a Ungaretti, se il docente di italiano era una creatura sensibile. E’ logico che quei docenti traditori della loro missione tradiscano ogni mattina al suono della campanella. Come? Non trasmettendo idee, telegrafando parole d’ordine. Non abituandovi alla critica, educandovi all’intruppamento per poi creare l’ingorgo, tutti insieme, sotto le bandiere del fallimento. Traditori-docenti che si lamentano dello stipendio basso e in cambio danno pochissimo, per vendetta. Infatti non impararono, quando era giusto farlo, che la dignità e la meraviglia di una professione non dipendono da quanto essa viene pagata. O hai dentro l’amore, o sei don Abbondio senza il coraggio che nessuno mai potrà darti.
La scuola è ormai un deserto di comunità e dottrina, un’occasione sprecata, la capitale del non-pensiero, dell’infelicità, del tempo che si è smarrito. L’anima santa della resistenza scolastica dovrebbe scendere in piazza contro se stessa, per incolparsi di ignavia e silenzio, e ripartire dai libri e dalla persona umana colta nella bellezza della sua adolescenza, per scoprire cosa può fare per sé.
Gli slogan e le voci assordanti, ragazzo smarrito insieme con il tuo tempo, sono una bugia, l’ombra di un naso che si allunga sulla disperazione. Solo le parole che meritano di essere salvate e gli sguardi che meritano di essere ricambiati potranno dirti cosa vuoi davvero. Se scorgerai veramente chi sei – come tutti desideriamo per noi stessi, spesso senza riuscirci – rintraccerai l’indirizzo esatto del mondo per cambiarlo. Se stringerai alleanze e corrispondenze di intelligenti sensi con un maestro virtuoso (e tra banchi e cattedra ce ne sono tuttora).
Cerca i poeti, hanno già scritto e spiegato. Cerca le parole di Valerio Magrelli, poeta e professore: “Essere matita è segreta ambizione. Bruciare sulla carta lentamente e nella carta restare in altra nuova forma suscitato. Diventare così da carne segno, da strumento ossatura esile del pensiero. Ma questa dolce eclissi della materia non sempre è concessa. C’è chi tramonta solo col suo corpo: allora più doloroso ne è il distacco”.