Caro Andrea, sono un medico | e penso al tuo viaggio - Live Sicilia

Caro Andrea, sono un medico | e penso al tuo viaggio

L'ultimo tratto di strada del grande scrittore. Vogliamo parlarne?

Garofalo all'occhiello
di
5 min di lettura

Caro Andrea,

ti ricordi il “ragazzo del barbiere”? Ma che te lo chiedo a fare, certo che te lo ricordi! Era il garzone gentile che poco prima che il cliente uscisse dal salone da barba, dietro un cortese “ragazzo, spazzola!” del titolare, si apprestava a curarsi di lui per pochi minuti, aiutandolo ad indossare giacca e soprabito, spazzando via, un po’ di mano, un po’ di pennello, i peletti residui della sua sosta all’interno del locale, ringraziandolo per la visita e quasi chiedendo scusa per i discorsi mediamente cialtroni che aveva dovuto sopportare lì dentro.

Mi è venuto in mente quando ho sentito, un mese fa circa, che dopo un grave malore ti avevano ricoverato in un’unità di terapie intensive. Ti stai chiedendo qual è il nesso, lo so. Adesso ti spiego.

Vedi, carissimo, stiamo ancora tutti guardandoci con gli occhi lucidi, un po’ attoniti, non rassegnati del fatto che ci hai lasciati. Adesso è tutto un susseguirsi di memorie e di rievocazioni, spontaneamente emergono i ricordi migliori. Come quando una carica esplosiva sommersa scoppia negli abissi, e dopo un po’ cominciano ad affiorare leggeri i resti della bomba, ormai inoffensiva, insieme ad alghe ed elementi marini di varia natura.

Ma mentre tutti fanno a gara per farti affettuosamente circolare in ogni modo “social” nell’illusione di restituirti alla vita, di riprenderti fra noi, di riavviare quella macchina dei sogni che sei stato per tutti, io, confesso, non distolgo il pensiero dal tuo ultimo tratto di strada. Mi fermo un attimo e guardo la scena dell’incidente. Indugio sull’ultima tua esperienza terrena, l’ultimo tuo tragitto terrestre, il ricovero in rianimazione, iniziato quando la tua mente, affogata, ha smesso di esprimersi in pensieri, e finita quando il tuo ultimo respiro ha lasciato un corpo inerme. Ti vedo disteso sul letto, assente, intubato, monitorato. Ne ho una grande pena. Per questo e di questo voglio parlarti, mettendo per un po’ da parte la voglia traboccante di unirmi all’enorme abbraccio di chi ti ha voluto bene, perché anch’io sono tra questi.

Vedi, Andrea, la Medicina ha fatto molta strada; non è più il tempo dell’improvvisazione e della fatalità. Oggi la potenza e l’efficacia delle terapie intensive ha cambiato la storia delle situazioni critiche, delle ultime fasi della vita, delle sopravvivenze, ottenendo anche guarigioni insperate e ri-animazioni di vite dichiarate ormai inanimi. Adesso tu ne sai qualcosa; adesso anche tu puoi dire di aver abitato quel luogo di vita/non vita fatto di macchine di sostegno vitale.

Ma credo che sia subito apparso chiaro che tu, nel tuo letto in rianimazione, non potendo realisticamente sopravvivere, potevi solo, auspicabilmente, non soffrire. E non ho alcun dubbio sul fatto che bravissimi colleghi si siano adoperati in tutti i modi per assistere l’evoluzione clinica del tuo stato; non avanzo il minimo sospetto che sia stato fatto tutto ciò che era appropriato e adeguato, con la nobile finalità del bando ad ogni sofferenza. Ma non nascondo che ogni giorno che passava, dopo l’accidente vascolare che ti ha colpito, l’ho vissuto con un’inquietudine sospettosa, tanto più quanto più lungo era il tempo che passava e rari gli aggiornamenti e i bollettini medici, che a un certo punto sparirono del tutto. Cosa stava succedendo?

So per certo quanto sia problematica, al capezzale di un paziente critico, l’inversione a U da un protocollo terapeutico inizialmente intensivo ad un percorso successivo di solo sostegno e accompagnamento. So quanto possa essere doloroso dover accettare l’ineluttabilità di una fine, specie quando, da medico, hai ragionevolmente sperato di poterla allontanare.

Lo so io, lo sappiamo in tanti, ma sarebbe bene che lo sappiano tutti. Spesso le dinamiche che stanno alla base di certi “accanimenti terapeutici” trovano spiegazione in atteggiamenti difensivistici, come quando senti battere violenti pugni sulle vetrate del reparto e intuisci che qualcuno ti chiederà soddisfazione proprio del paziente di cui ti stai occupando. Ma altre volte gli ostacoli maggiori vanno indagati dentro di noi: la rinuncia a terapie “salvavita” sa di resa.

E alla fine, se saggiamente e amorevolmente non si desiste, ci si può ritrovare ad insistere irragionevolmente; ciò che ne viene fuori può essere – spesso lo è – la realizzazione di vite “sospese”, corpi collegati a macchine, sopravvivenze inedite e inquietanti, sonni profondi e senza risvegli, stati biologici dentro tunnel senza uscita. E ancora ci si barcamena fra elettroliti, farmaci vasoattivi e saturazioni di ossigeno, ma non si sa più cosa, davvero, si stia sperando, cosa si stia facendo, “dove” sia il paziente. Le nostre mani, se non esperte, se mal condotte, con le potenti armi terapeutiche di cui oggi si dispone possono involontariamente procurare un danno, quello che spesso corona le migliori intenzioni: la mera sopravvivenza biologica sostenuta da terapie futili. E oggi il medico si ritrova con un nemico in più.

Ecco perché mi viene in mente il ragazzo del barbiere. L’accompagnamento all’uscio, carezzevole e rispettoso, è l’unica cosa che andrebbe fatta anche quando non è da una bottega artigianale che si sta per uscire, ma dalla stessa vita. Spesso non ci si riesce ed è un errore. Spero – anzi, sono certo – che con te ci si sia riusciti: ad un certo punto, non sarà stato opportuno dare seguito al desiderio di restituirti a noi, al pubblico dei tuoi lettori, ai tuoi cari. Sarà prevalso il bisogno di cure diverse, aggiuntive: di quell’ultima stretta di mano, di un saluto affettuoso, accompagnato da espressioni di umana amicizia, di solidarietà. Solo di quello.

Andrea caro, ci hai lasciato parole tue, pensieri tuoi, ci hai fatto sorridere e pensare. Non ti ringrazieremo mai abbastanza. Ma fuori dalla bottega c’è un altro mondo, copriti bene. E ricordati di noi.

 

 

 

 


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