Palermo a mano armata: non è il sequel di un vecchio film degli anni 70, ma il ritorno a uno scenario a cui non eravamo più abituati. O forse no, forse non c’è nessun ritorno, forse è solo l’istantanea di un mondo che è rimasto lì, magari immortalato da un iPhone anziché dalla polaroid, ma è sempre lì, cristallizzato, inanimato, immobile.
Siamo una città che non cambia mai: tanta acqua è passata sotto i ponti e l’Oreto è sempre lì, asciutto e subdolamente sovrastato da un ponte che prima o poi verrà giù; siamo stati in seria A e il palazzetto dello sport è sempre lì, chiuso come le chiese quando ti vuoi confessare; siamo diventati città metropolitana e l’unica cosa che si avvicina all’idea di metropolitana è un tram alla cui inutilità ci siamo attaccati; siamo in piena terza repubblica e c’è ancora chi vende (e chi compra) voti alle elezioni; siamo diventati capitale della cultura e c’è ancora chi pensa di chiedere il pizzo a un teatro.
Siamo una città che non cambia mai, perché c’è ancora troppa gente che non vuol cambiare, che preferisce rimanere ancorata a stereotipi comportamentali e preconcetti morali che fanno accapponare la pelle. È la Palermo popolana delle borgate, dove la vita scorre lenta e lenti sono i processi di evoluzione, sociale e culturale. No, non è classismo: io vengo da un quartiere, io amo le borgate. È solo l’amara considerazione di un mondo popoloso e addensato di faciloneria quotidiana, che ancora preserva gelosamente gli steccati della prevaricazione come antidoto alla debolezza, del cappello in mano come panacea del mal d’inerzia e dell’espediente comunque sia. È la Palermo di periferie emarginate, dove tutto fa colore, rifiuti, inedia e povertà; dove la noia miscela lagnusia e frenesia, rassegnazione e confusione. Dove non ci sono le istituzioni, c’è solo la politica delle scadenze elettorali e dei politicanti borgatari, cui basta mettersi una cravatta per fingersi acrobati e non sentirsi più dei nani.
Sono loro che lasciano i quartieri in balia di se stessi. La povertà educativa (e non solo) e la dispersione scolastica, i centri aggregativi chiusi, la mobilità sempre più isolante, il verde che non esiste e dove esiste si chiama incuria, saracinesche abbassate, famiglie sfrattate ed interi quartieri spaccati in due dalle barriere. Non c’è niente da fare, quella è una realtà differente, dove a nessuno viene chiesto di differenziare, dove la messa in regola può far la differenza, dove la speranza è sempre differita.
Questa è Palermo. Una città che vive l’illusione patinata di quattro vie salottiere, come la moquette sotto cui nascondere la polvere di periferie scordate da Dio e dai santi di un paradiso dalle porte sempre chiuse e segretarie che fanno filtro.
E intanto si spara. Si spara allo Zen, si spara a Pagliarelli, si spara a un trafficante, si spara a un commercialista. Episodi senza apparente legame, ma legati da una sottocultura, tascia e malandrina, del più forte. E la mafia c’entra sempre, anche quando, forse, non c’entra niente; perché la mafia non è solo un’organizzazione che si smette attorno a un tavolo a gioca a Risiko con le nostre vite; è un malerba del pensiero che attecchisce nel deserto.