CATANIA. Abbiamo incontrato il pittore catanese Claudio Arezzo di Trifiletti, autore del progetto Imprints, e non solo, che lo ha visto protagonista in tutto il mondo.
In una lunga intervista video, riportata in parte di seguito, ci ha raccontato a cuore aperto i suoi ricordi d’infanzia ed il suo punto di vista speciale sull’arte e sul mondo contemporaneo.
Nasci a Catania nel maggio del ’75. Quali sono i tuoi primi ricordi di Catania e che aria si respirava in città in quegli anni?
Il ricordo più traumatico che ho fu quando scoppio Černobyl’, avrò avuto dieci anni.
Poi col tempo mi sono reso conto che non c’è generazione che non ha conosciuto degli orrori.
Ecco, il mio augurio è che ci possa essere una generazione che possa nascere, crescere d impegnarsi vedendo solo cose belle.
In quell’epoca si respirava l’inizio dell’epoca dei centri commerciali: Avevamo il primo centro commerciale a Catania, Vulcania! Quante cose assurde fa l’uomo
Una signora, una volta, le dissi: “Guarda Lia queste belle stelle di Natale!”. E lei mi rispose “Ma tu non sai, dove c’era questo palazzo, quand’ero bambina io, era tutta una distesa di pietra lavica chiamata Sciara, dove cresceva tutto un manto di stelle di Natale!”
Quello che intendo dire è che quello che si respirava ieri, si respira anche oggi, anche se questo respiro è “occultato”. Intendo dire che oggi Vulcania è chiuso, non serve più, perché hanno fatto centri commerciali più grandi. Il mio ricordo d’infanzia più caro invece era la piccola salumeria, o il piccolo panificio, e mio nonno che mi diceva “Vai a giocare la schedina!”, e ci dava 2000 lire.
Noi bambini quindi correvamo subito al tabacchino, perché c’era l’occasione, poi, l’indomani, di diventare ricchi. […]
Il tuo approccio alla pittura ed all’arte, come più volte hai voluto sottolineare in passato, è stato un approccio del tutto autodidatta e quindi estremamente soggettivo , unico e personale. Ti va di provare a parlarcene?
[…]L’arte potremmo dire che è una chiave di lettura unica, elevata e che tenta di comunicare e trasmettere la memoria. Tutt’oggi quando realizzo un’opera io stesso non la comprendo nel momento in cui la realizzo, la comprendo dopo anni che che l’ho manifestata, resa concreta. Quindi è ovvio che quello che dipingo non può essere compreso dagli altri, perché se io la comprendo dopo tre anni, gli altri ci metteranno almeno vent’anni.
Però so che quella è una testimonianza dove ovviamente risiede la voce dell’arte. […]
Nel tuo percorso di vita è stato sicuramente determinante un viaggio che molti hanno fa hai intrapreso in India. Cosa puoi condividere con noi di quell’esperienza forse irripetibile che ha segnato poi l’inizio del tuo percorso artistico?
L’India, l’India mi ha totalmente aperto i sensi, perché noi viviamo in una città che è totalmente asfaltata, non abbiamo più la consistenza degli odori, della luminosità.
Siamo accerchiati da palazzi che non ci fanno arrivare neanche la luce.
L’India è un posto dove, nonostante ci sia più fame, c’è dignità, dignità.
Le persone si vestono per apparire, hanno la luce interiore. La conoscenza e la luce interiore credo che siano fra le cose più belle che un uomo possa sperimentare.