"Sicilia, la politica usa le clientele come asset del consenso"

“La politica usa le clientele come asset del consenso”

L'affondo pesantissimo del presidente della Commissione antimafia.

Presidente Fava, tra le voci in calce all’inchiesta sull’Ast, le contingenze politiche e varie spigolature di cronaca: non sembrano giorni facili per il governo Musumeci. Che ne pensa?
“Non si tratta di giorni, né di settimane. Va avanti così da quattro anni, senza trovare uno spiraglio che illumini questa esperienza o che riscatti la sua torpidezza perenne”.

Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia regionale, era stato esplicito, in un suo post di qualche giorno fa: “Che diranno adesso gli esegeti del ‘campo largo’ e dell’apertura a Forza Italia, gli apprendisti stregoni che a Roma e in Sicilia giocano al ‘modello Draghi’? Cosa s’inventeranno leggendo le miserie giudiziarie dell’inchiesta sull’Azienda Siciliana dei Trasporti? Che penseranno delle conversazioni tra presidente e direttore generale, intercettati mentre commentano l’infornata di assunzioni clientelari pretese dai loro padrini politici?”. Il riferimento è proprio alle note intercettazioni in cui vengono tirati in ballo il presidente della Regione, Nello Musumeci e il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè: “Chistu è l’ultimo pizzino… di questo non c’ho il curriculum picchi mu rettiru in assessorato… U ioco forte, gioco forte, u fa la politica, io ne infilo qualcuno, no ca io infilo a tutti… Il contatto sono Miccichè o u presidente da Regione iddi sunnu”. Gli interessati, non indagati, hanno annunciato denunce. Oltre l’inchiesta, resta la valutazione politica.

Cosa ci suggeriscono, dunque, gli eventi recenti?
“Due cose. Una sulla politica siciliana che utilizza le clientele come asset del consenso e del suo mantenimento, con una vocazione trasversale, e ci sarebbe da approfondire davvero sull’operato delle agenzie interinali”.

La seconda?
“Che sarebbe assurdo chiacchierare di campo largo con questo centrodestra che è una accozzaglia disomogenea e opaca. Per fortuna, anche quelli che erano recalcitranti nei confronti della mia impostazione se ne sono accorti”.

Il presidente Musumeci ha sempre ribattuto a ogni critica, rivendicando l’onestà del suo operato.
“Musumeci è un uomo perbene, ma non un uomo politicamente perbene, circostanza che comporterebbe coerenza e onestà intellettuale. Lui ci ricorda che nelle sue tasche non c’è un centesimo che sia frutto di pratiche non specchiate, benissimo, lo diamo per scontato. Ma questa è una precondizione, non un viatico eterno”.

Cosa intende?
“Che ci vuole ben altro che il silenzio sulla storia di Barcellona di Pozzo di Gotto, dove risulterebbero opacità e voti sospetti per la lista di ‘Diventerà Bellissima’. Eppure, lui non dice niente. Che bisognerebbe mandare al diavolo i clientelismi e portare avanti le riforme. Eppure, questo non è accaduto. Da quattro anni il presidente Musumeci tuona contro le discariche private e non c’è uno straccio di passo concreto. Musumeci è due, non uno. Il suo avatar rivendica, denuncia, incalza sulle questione morale, con espressioni fiammeggianti. Eppure, il presidente tace, devo dire con ineleganza, su certe vicende che lo riguardano. Politicamente, beninteso”.

Beh, se è talmente messo male, come sostiene lei, dovrebbe essere l’avversario ideale, no? Oppure non è così.
“Non ci sono avversari da preferire. Io però penso che il presidente Musumeci debba ricandidarsi per un fatto di verità. Deve mettersi davanti ai siciliani ed essere giudicato. Non è lui stesso che si riferisce continuamente al popolo? Allora si metta alla prova e vedremo quanto vale, se le critiche sono condivise o se si tratta soltanto dell’opera di opinionisti malevoli”.

In definitiva, il suo giudizio qual è?
“Nello Musumeci ha dimostrato di non avere il coraggio delle azioni necessarie. Avrebbe potuto investire e magari osare per lasciare una traccia in Sicilia e dentro se stesso. Invece si è comportato come un amministratore di condominio, nemmeno bravo”.

Il segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo ha detto che, in Sicilia, il modello Draghi, per la Regione, non può andare.
“Prendo atto con piacere che si sono abbandonati simili giochini da apprendisti stregoni. Almeno siamo tornati nel perimetro della normale coerenza politica. Però, adesso, dobbiamo sbrigarci. Io sono in campo ed è noto a tutti”.

Da Palazzo d’Orleans a Palazzo delle Aquile, come le pare la situazione?
“A Palermo non è cresciuta una classe dirigente a cui affidare la trasmissione e l’eredità del ciclo di Orlando. Negli ultimi trent’anni sarebbe stato necessario costruire una comunità politica, ma non è accaduto”.

Il suo giudizio sull’Orlandismo?
“Una pratica di governo che ha conosciuto anche grandi momenti e felicissime intuizioni e poi c’è Orlando che è politicamente un solitario”.

Il sindaco di Palermo viene descritto come un uomo caratterizzato dalla tentazione di chi vuole essere solo al comando. Lei lo conosce, è vero?
“Io andai via dalla Rete proprio per questo”.

Lei, se fosse presidente della Regione, da cosa partirebbe?
“Cercherei di capire se esiste, all’interno dell’amministrazione regionale, la capacità di rispondere a una visione politica diversa e alta. Ci vuole lo strumento operativo, altrimenti si resta fermi alle chiacchiere”.

Ma, a prescindere dalle dichiarazioni di principio che trovano tutti concordi, non le viene il sospetto che proprio la sua visione, nemica delle clientele e delle contiguità, sia largamente minoritaria, in Sicilia?
“Lo è, ma è anche necessaria. Io ho un limite: non ho mai raccomandato nessuno. Neanche i miei amici”.

E i suoi amici che ne pensano?
“Qualcuno l’ho perso”.


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