Commedia in tre atti | O magari una farsa - Live Sicilia

Commedia in tre atti | O magari una farsa

Una lunga giornata di interventi. Ma ecco cosa è successo dietro le quinte di Palazzo dei Normanni.

Qui si racconta la trama di una commedia andata in scena alla filodrammatica Ars. Titolo: la mozione di sfiducia. Sottotitolo: come fare casino senza spostare nulla, neanche di un centimetro. Personaggi e interpreti: il presidente della Regione, Rosario Crocetta (protagonista). La sua giunta genericamente intesa (coro, non greco perché questa è pur sempre una commedia). Vari deputati (guest star). La gente (comparse) Al termine, fiori, fischi e battimani.

Anteprima
All’ingresso di Palazzo dei Normanni, si capisce (si era capito pure prima) che nessuna mozione di sfiducia sarà mai votata con esito probante. Nell’edificio che funge da scena, nonostante le finestre, non sono stati pensati collegamenti con il mondo reale. L’esistenza scorre in un clima di garantita virtualità. Avvertenza: nel corso dello spettacolo parecchi degli attori faranno spesso riferimento alla Sicilia, ai poveri, agli ultimi, agli emarginati. Trattasi di mero espediente teatrale, di effetto drammaturgico, nella speranza che l’uditorio abbocchi. Non ci sarà alcun gesto consapevole per liquidare la compagnia di giro e rispedirla a casa.

Nella zona inviolabile per i comuni mortali, ci sono ottimi caffè e splendidi panini, stipendi sovrumani, guarentigie, privilegi e famigli. Qui si perpetuano i siciliani che si sono salvati dal flagello dei nostri tempi, magari un po’ per caso. E adesso che osservano la folla oltre il portone, perché mai dovrebbero aspirare a tornare nella mischia? Non siamo davanti a un giallo. E’ tecnicamente una commedia, con gli occhi della giunta e del governatore. Una farsa, a fantasia dei soliti criticoni malvagi. Un godibilissimo e tremendo show.

Primo atto
Il sipario si apre su un cameriere che conduce un vassoio di caffè per le segrete stanze, mentre nella sala gialla si svolge un interessante simposio sui diritti umani. Allo spettatore corre l’obbligo di una riflessione a margine, appunto sul caffè. L’uomo incanutito che regge il carico di piattini e tazzine rappresenta, suo malgrado, un simbolo inamovibile del regime. Il mondo è cambiato, quello che ieri era vero, non sarà vero domani (grazie, Lucio Dalla). Eppure, lui, il portatore del sacro caffè, non ha mosso altro che le sue gambe per le scalinate di Palazzo dei Normanni a vantaggio di padroni vecchi e nuovi. E se il caffè nel frattempo si fredda? Niente paura, il potere possiede una fiamma perenne in grado di riscaldarlo.

Nel corridoio attiguo al recinto pensato per la stampa che segue i lavori (!) degli onorevoli su uno schermo, non avendo diritto ad avvicinarsi fisicamente al mistico spazio parlamentare, sbuca il presidente Crocetta in camicia, senza giacca.

Sono quasi le undici. Orario in cui la mozione di sfiducia comincia sonnacchiosamente a prendere le mosse. Saro chiacchiera con una signora bionda. Piomba sul palco, con puntuale attitudine, Antonio Venturino, già mimo, già grillino, vicepresidente dell’Ars in polemica fratricida con i suoi ex compagni di barricata. Cenni affettuosi. Rosario saluta Antonio e mormora qualcosa come “Blog… grillini… fanno quello che voli chiddu… senza cervello”. Il colloquio si ode a spizzichi e bocconi, non è semplice per uno spettatore origliare dietro le quinte. Dalla scarna traccia appigliata all’orecchio parrebbe un giudizio di disvalore nei confronti di Grillo, Cancelleri & soci, promotori della sfiducia.

Si presenta la parlamentare Alice Anselmo a un invito di Crocetta scatta sull’attenti e sbatte i tacchi: “Agli ordini”, tra il serio e il faceto. Il rito della gara che tanto si sa come va a finire soffia e diventa un elemento giornalisticamente considerevole. Anziani cronisti che sono diventati tali strologando le mezze allusioni degli abitatori del palazzo si sistemano nelle gradinate della stamperia. Rammentano i disillusi abbonati del campionato casalingo del Palermo. Intanto, il presidente Ardizzone fischia. Partiti. Tanto ritornano.

Secondo atto
Inaugura il deputato Giuseppe Milazzo che pone una questione che c’entra con l’ordine del giorno come la bistecca a merenda. Ardizzone, nei panni di un maestro elementare alle prese con una classe ribelle, tenta di placarlo. Impresa improba. Milazzo ha l’invettiva in pizzo da quando era consigliere comunale a Palazzo delle Aquile e in una delle tante sedute improvvisò una specie di protesta sonora, urlando con enfasi carbonara: “Dov’è la democrazia!?”, fino allo sfinimento dell’intero Consiglio. Ardizzone ha la sua gatta da pelare. E sbriga la faccenda.

Passiamo alla mozione di sfiducia, il cuore della commedia (o della farsa). Si assiste a un genocidio dei congiuntivi, alla moria dei trapassati, all’eutanasia dei condizionali. Li risparmiamo al lettore e fingiamo che tutti abbiano parlato in italiano. Ecco la requisitoria del grillino Cancelleri, l’avversario numero uno di Saro, il padre della mozione, Bruto che pugnala Cesare, secondo la vulgata filo-governativa. Cita una frase di Cromwell. Praticamente rilegge l’articolo di Livesicilia sugli annunci del governatore. La parola che incuriosisce di più nell’intervento del capogruppo a cinque stelle è “Pachidermia”. Sulla Treccani si legge: “Pachidermia: ispessimento della cute per ipertrofia di tutti i suoi strati e iperplasia fibrosa interstiziale. Nella maggioranza dei casi è conseguenza di una stasi linfatica regionale”.

A parte ‘regionale’, non sembra che la definizione calzi a proposito. Forse Cancelleri intendeva dire che il governo è su un binario morto. A lui, al grillino, si riconosce il diritto di storpiare qualche vocabolo. E’ una vendetta legittima, visto che tutti lo chiamano “Cancellieri” o “Cancelliere”. In un caso, il riferimento inconsapevole è al ministro (donna), nel secondo si allude a presagi teutonici ed oscuri. Comunque sia, Cancelleri (senza la i) comincia con Cromwell e conclude con una parafrasi di Andreotti sulla circostanza “che bisogna porgere l’altra guancia, ma di guance ne abbiamo due”. Il divo Giulio i conti non li sbagliava mai.

Al microfono succede il campione della maggioranza, il megafonista Malafarina, che incorre in una epica gaffe. Cercando di elogiare, la combina grossa: “Gli assessori non saranno delle cime, però sono persone perbene”. Applausaccio ironico dell’aula. Colpo di tosse e imporporamento delle gote del Malafarina che prova una retromarcia, ormai il danno è lì, sul tappeto.

La palla a Nello Musumeci, l’altro sfiduciante. Nello definisce l’Ars in un modo originale. Panico tra i cronisti stenografi. Che ha detto? Ha detto “Serenata romana?”, ha detto “Patata nostrana?”. No, no, soccorre un bene informato, ha definito l’Ars “una navata pagana”. Ah. Sospiro di sollievo. Musumeci prosegue. Noti la sua cravatta nera. Sullo scranno c’è un padre che ha perso un figlio. La vita irrompe per un un attimo con una urgenza di lacrime nel palazzo lontano di vetro e mattoni. Ti afferra alla gola. Sipario.

Terzo atto
All’alba dell’ultimo pezzetto di strada, allo spettatore salta su il ghiribizzo di quattro passi tra bar e ristorante. Molti deputati che lassù si guardavano in cagnesco, quaggiù, tra un piatto di pasta e una scaletta cotto e formaggio, sorridono e si stringono la mano come Nietzsche e Marz (grazie, Antonello Venditti). C’è il ristorante riservato ai parlamentari. La porta si schiude. A un tavolo comune, Rosario Crocetta, Antonello Cracolici e Vincenzo Figuccia mangiano e bevono, ridendo. Insieme. Una gioiosa macchina da schiticchio.

Di là, nella sala D’Ercole semi-deserta per la pausa pranzo, qualche onorevole stakanovista sta narrando con la commozione spalmata in ogni gesto la tragedia della Sicilia che ha fame e chiede pane. Invece qui si beve e appunto si mangia con gusto, con visi alieni dalla preoccupazione. Mangiare e bere in compagnia è un atto di condivisione benedetto dal cielo, tuttavia è la retorica della stanza accanto a rendere gli eventi un tantino surreali. Non si può spiegare con increspature dolorose della bocca lo sfacelo e trincare allegramente un minuto dopo, nello stesso perimetro di significati.

Perciò, la trama sgocciola e muore, le assi del palcoscenico scricchiolano. Crollano. Come improvvisare una visita nel camerino e scoprire che il super-eroe preposto al salvataggio della fanciulla ha la pancia e non sa più volare.

Gran finale. Saro si difende e contrattacca, con una tecnica oratoria che non si discute nel corso di un comizio-monstre. Snocciola un salmo biblico: “Ecco, sia fatta la tua volontà”. Scarta: “Non sono solo bigamo, sono poligamo”. Cita Livesicilia. Altre cento affermazioni. Sipario col botto, i fuochi d’artificio e le stelle filanti. La sfiducia non passa. Si sapeva. Lo sapeva Crocetta che aveva già festeggiato un anno di regno con una torta a forma di Trinacria, sfidando la metafora e la scaramanzia. I dolci, per un presidente di Regione, possono essere forieri di cavoli amari.

 


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