CATANIA – “L’istruttoria dibattimentale ha consentito di acquisire elementi fattuali e logici che costituiscono indizi certi, gravi, precisi e univoci della responsabilità dell’imputato per l’omicidio della Cimò e per la connessa soppressione del cadavere”, si apre così il capitolo sulle considerazioni conclusive delle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Catania che esattamente un anno fa ha condannato Salvatore Di Grazia a 25 anni di reclusione per l’omicidio della moglie Mariella Cimò, scomparsa nel nulla il 25 agosto 2011. Oltre 120 pagine in cui la Corte (giudice estensore Iolanda Apostolico) ha ripercorso i passi del lungo dibattimento in cui sono stati ascoltati decine e decine di testimoni ed è stato analizzato l’apparato probatorio che aveva portato il pm Angelo Busacca a chiedere ai giudici la condanna all’ergastolo. Per la Corte d’Assise non ci sono dubbi sulle responsabilità penali di Salvatore Di Grazia, difeso dall’avvocato Giuseppe Rapisarda che a questo punto, dopo il deposito delle motivazioni, potrà redigere il ricorso in appello.
La Corte d’Assise parte dalle dichiarazioni di Popa Viorica, la colf dei vicini di casa dei coniugi Di Grazia a San Gregorio di Catania. La domestica ogni giorno sentiva la voce di Mariella Cimò che accudiva i cani in giardino. Ma dal 26 agosto nessun rumore è arrivato al suo orecchio. Le dichiarazioni sono state rese alla Pg, perché nonostante diverse citazioni la colf, straniera, non è stata rintracciata e non ha potuto deporre. Ma la Corte ha acquisito i verbali. Ma ogni pezzo raccolto nel dibattimento portano – secondo i giudici – alla colpevolezza del marito. Le dichiarazioni dei familiari, l’analisi delle immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza della villa dei vicini, l’analisi dei tabulati telefonici, porterebbero alla conclusione che “Mariella Cimò fu uccisa con modalità imprecisate e che l’omicidio avvenne all’interno della sua abitazione nella via Leopardi di San Gregorio – scrivono i giudici – nell’arco temporale compreso tra le 19,20 del 24 agosto e le 7.39 del mattino successivo, allorché Di Grazia usciva per la prima volta dall’abitazione”.
Mariella Cimò non è mai uscita di casa dopo quella sera. Non ci sono immagini del suo allontanamento. Bocciata l’ipotesi della difesa che la moglie dell’imputato si possa essere allontanata tra i terreni. La zona circostante l’abitazione aveva “caratteristiche tali – scrivono nelle motivazioni i giudici – da far escludere vie di fuga alternative”. “È illogico persino ritenere valida la tesi che la Cimò volesse farla “pagare” al Di Grazia scomparendo nel nulla”, aggiunge la Corte. I giudici poi pongono in evidenza il fatto che dalla sera alla mattina a cavallo tra il 24 e il 25 agosto nessun estraneo ha fatto ingresso nella villa. E inoltre i carabinieri non hanno trovato nessun segno di effrazione.
Per i giudici della Corte d’Assise inoltre anche il comportamento dell’imputato – successivo alla data di scomparsa della moglie – conferirebbe “solidità al quadro dei gravi e convergenti indizi”. Un carattere vivace e colorato quello di Di Grazia, che abbiamo imparato a conoscere con le interviste a Chi l’ha visto? e Quarto Grado e poi nel corso del lungo dibattimento. Non ha mancato mai un’udienza Salvatore Di Grazia, distinguendosi per il suo sgargiante abbigliamento. Per i giudici l’imputato avrebbe fatto “telefonate a vuoto per simulare tentativi di rintracciarla” e inoltre avrebbe fornito “indicazioni false alle persone” che volevano parlare con Mariella. La denuncia poi è stata presentata solo 11 giorni dopo la scomparsa. “Non trascurabili” sono per la Corte i numerosi contatti telefonici con due donne. Sarebbero la prova della sua “ferma intenzione di riprendere” le sue scappatelle extraconiugali. Inoltre i rapporti con la moglie si sarebbero fortemente incrinati per la pressione irremovibile della Cimò che voleva chiudere l’autolavaggio di Aci Sant’Antonio. Decisione che non piaceva affatto a Di Grazia.
A mezzogiorno del 24 agosto infatti sarebbe scoppiata una lite. Lite che forse sarebbe ripresa e sfociata nell’omicidio e poi nell’occultamento del cadavere. E l’acquisto del mastello (una grande vasca) la mattina dopo (il 25 agosto) si inserisce – secondo i giudici – “coerentemente nel quadro descritto”. La vasca inoltre non è mai stata ritrovata dai carabinieri. La Corte poi analizza i presunti depistaggi emersi dalle intercettazioni. Per i giudici nonostante non sia mai stato trovato il cadavere non c’e “alcun dubbio circa l’avvenuta uccisione” di Mariella Cimò.